TAVOLA DEL M.·.A.·. MORENO NERI ALLA G.·.L.·. 2001 DEL R.·.S.·.I.·

 RITO SIMBOLICO ITALIANO 
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TAVOLA

DEL M.A. MORENO NERI

Presidente del Collegio “Bononia”

alla Serenissima G.·.L.·. 2001

Belmonte Calabro, Villaggio Albergo Belmonte (VAB), 19 maggio 2001

Il S.G.M. Ottavio Gallego
Il S.G.M. Ottavio Gallego

Gentili Signore, Venerabilissimo Gran Maestro, Eminenti rappresentanti del Grande Oriente e degli altri Riti o di nessun rito, carissimi Fratelli Maestri Architetti,

il nostro Rito oggi si presenta con un corpo vigoroso, eppure snello. E ciò è proprio per quella ricercata e accurata selezione dei Maestri che intendono entrarne a far parte, un vaglio che è determinato da quel senso della misura che ci è proprio e da quella massima tradizionale che afferma che “molti sono i portatori di ferule pochi i Bacchi“.

Ho fatto in questo istante un riferimento alla geometria e agli antichi misteri. Non vi sarà ignoto, del resto, l’asserto che il R\S\I\si riallaccia alle più antiche tradizioni iniziatiche italiche ed in particolare alla Scuola di Crotone, fondata da Pitagora“. Si manifesterà – certo ad un orecchio profano – attestazione spericolata e peregrina. Meno rara e tutt’altro che singolare è tale affermazione per chi è aduso alle “catene d’amore e d’unione“, per chi, come noi, ne ha saputo meditare ed introiettare i significati simbolici. Non a caso insistiamo sulla “consapevolezza che la L\M\ costituisce il veicolo mediante il quale viene trasmessa in Occidente la Tradizione iniziatica” e sul collegamento del perfezionamento dei membri del S\nella via aperta all’iniziazione massonica al modo come la Tradizione si è presentata in Italia nell’insegnamento di Pitagora“.

Oggidì quest’idea di perennità della trasmissione è come offuscata e il nostro appare un ostinato credere. Ma è la nostra àncora che ci impedisce una smorzata volonta, una sordida noncuranza. Gli altri, i profani tutti i desideri li indirizzano o verso la Città Celeste o il Progresso. L’uno e l’altro patria astrale o limite d’un tempo lineare, che tolgono il dovere individuale della costruzione terrena. Un Simbolico non può che essere solidale con un circolare od elittico sogno di durata e d’eterno ritorno, diversamente da chi pone il mito dell’Età dell’Oro esclusivamente al termine della storia, anziché porla anche al suo inizio. Su questo tempo circolare scivola la retta della nostra vita.

Neppure ci persuade il progetto di salvezza della tecnica, né tantomeno che essa abbia eroso per sempre gli altari del sacro. Anzi nell’albeggiare del sacro e del mito troveremo le necessarie e sempiterne risposte. In quello, ad esempio, del Protagora di Platone, in cui ci si svela che nella refurtiva divina di Prometeo, – fuoco e sapienza tecnica, rubate agli dei e donate l’una e l’altro ai mortali – mancava la sapienza politica. Era oltremodo custodita da Zeus e vigilata da terribili guardiani.

E, poiché [con la sapienza tecnica e con il fuoco] l’uomo divenne partecipe di sorte divina, in primo luogo, in virtù di questo legame di parentela che venne ad avere col divino, unico fra gli animali credette negli dèi, e intraprese a costruire altari e statue di dèi. Ma senza l’arte politica gli uomini non potevano coesistere e non facevano altro che distruggersi a vicenda. “Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini la giustizia e il rispetto, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia.

Il testo è persuasivo. Lo sfruttamento del furto prometeico da sempre ha rischiato di annientare l’uomo. Non è vero come Umberto Galimberti ha cercato invano di convincerci alla G\L\ del G\O\I\ che la tecnica disabilita il sacro. Essa è invece dono del primo, ma gli altri doni portici dalle mani ermetiche furono successivamente giustizia e rispetto. Pericolosa è l’una senza questi altri: Nihil scientia sine coscientia.

Compito del filosofo, diceva Pitagora, è contemplare il cielo. Il tracciato di una notte stellata misurerà dunque le nostre certezze. Osserveremo il crescere di Orione come fu osservato nel peregrinare di Odisseo e nel viaggio di Enea. Non vi è differenza tra quelli e il nostro andare. Ogni esistenza ha le sue partenze, lungo il viaggio incontreremo sirene e ciclopi, ci si imbatterà in frecce ma sovente il loro dolore ci trafigge per sanarci. La storia di antiche gesta ed opere non ci sarà qualcosa d’estraneo. Ci convincono anzi di un mondo decrepito che ha bisogno di essere ricondotto alla sua giovinezza, di un Occidente che non è più in grado di intendere il linguaggio del mito, del simbolo, degli Antichi Misteri. Ma poiché nel mondo delle idee nulla si distrugge, l’originario messaggio è sopravissuto presso la nostra Istituzione per quanto orbato della sua remota e primigenia luce.

Secondo Platone il numero nasce dalla osservazione del cielo e dei cicli planetari, dando luogo alla “difficile scienza del sorgere e del tramontare degli astri“. Una scienza che poi, per così dire, “atterra“. Simbolo ne fu lo gnomone che altro non fu con stilo e piano che una squadra confitta nella terra. All’ordine dei cicli celesti, il perfetto e calcolabile moto del Sole, della Luna, dei pianeti, deve corrispondere un eguale ordine e similarità degli eventi terrestri, e non solo di quelli naturali, ma anche di quelli umani. “Ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, per fare il miracolo dell’Unità…“. Esso rese possibile rappresentare la crescita e la diminuzione di grandezze, mantenendone inalterata la forma. Tramite esso si costruirono i templi: “il prodotto avanzato di un’arte della misura di origine rituale, che aveva tra i suoi compiti quello di riprodurre sulla Terra gli eventi celesti“.

Come uno gnomone noi siamo, l’antica squadra, lo sguardo alle stelle, ma i piedi sulla terra. Il Massone che bussa alla porta del XXI secolo è oggi più che mai un costruttore di templi.

Si addita dunque un compito esaltante: la gioia del viaggio, della nostra divina rotta, non sta nella tappa che si raggiunge, ma nel viaggio in se stesso. La felicità che l’iniziazione procura non sta nelle molteplici scoperte dovute alla ricerca, ma nella ricerca in quanto tale.

Ed anche nei più duri momenti, quelli in cui l’astro della L\M\ pareva oscurato, anche nei momenti de “l’inverno del nostro scontento“, l’architrave del nostro Tempio si è sostenuto sulle solide e imperiture colonne dell’arte architettonica che ci si mostrano, mirabilmente condensate, in queste parole di Marguerite Yourcenar, tratte dalle Memorie di Adriano, quell’imperatore che poc’anzi il nostro Gran Maestro ha citato:

Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l’ordine. La pace si instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d’infondervi. Non tutti i libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, ad intervalli regolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente.”

Se perciò l’età dell’oro, quella dell’armonia e dell’ordine è ciclica ed intermittente, ci atterremo alla norma del distacco. Metteremo da parte l’Io. Davvero ci svestiremo dei metalli. Bisognerà ripulir la testa, nettare, a colpi di sapone e bastone, i pregiudizi da difendere, le passioni e i desideri da coltivare, le paure da sedare. Dei juvantibus, con l’aiuto di quegli dei che presiedono a questo genere di lavori, s’accenderà, allora, un lume, affiorerà il dono della chiaroveggenza e quello della libertà. Allo sguardo dell’uomo i confini appariranno più sterminati di quelli cui è subordinato ed assuefatto. Non è detto che quel raggio di sole debba restare un lampo. Taluno coltiverà in permanenza quest’altro e ulteriore modo di sentire il mondo come un’intima e incombente necessità e considerererà dunque il Grande Architetto come – affermava il Fratello Proudhon – “un’ipotesi necessaria”.

Lo si ripete, se il nostro obiettivo è quello della rigenerazione, della pitagorica palingenesi, ci orienteremo verso il processo e non l’esito. Stiamo navigando su queste rotte perché vogliamo arrivare in porto, ma il vero motivo del nostro viaggio è che vogliamo compierlo. E ne abbracciamo la saggezza dell’incertezza.

Saggezza dell’incertezza significa distaccarsi dal metallo del passato, il passato è la prigione delle cose note, e ne fuggiremo per entrare in quegli spazi sterminati ed ignoti. Un neurobiologo vi dirà che l’uomo medio elabora circa 60.000 pensieri al giorno. Sorprendente! Ma ciò che imbarazza è che il 90% di essi sono quelli di ieri. L’uomo medio è un fascio di riflessi condizionati, di nervi costantemente scatenati da persone e circostanze che producono esiti prevedibili.

I versi d’oro pitagorici ci insegnano: “Agisci in modo che nulla possa danneggiarti e non agire senza riflettere. Fa che i tuoi occhi non accolgano il dolce sonno prima d’aver ripercorso per tre volte gli atti della giornata. In che cosa ho mancato? Che cosa ho fatto? Quale dei miei doveri non ho compiuto?… Ecco ciò in cui dovrai esercitarti, ecco il compito che richiede tutti i tuoi sforzi, ecco ciò che devi prediligere e che ti porterà sulle tracce della virtù divina“.

C’insegnano dunque ad usare i ricordi ed il passato, ma non permettono che i pensieri di ieri ci usino, il che rappresenta la differenza essenziale tra l’essere una vittima ed un architetto, demiurgo e creatore.

L’arte reale o arte regia è l’arte dell’edificazione cui corrisponde l’architettura e la geometria sacra. Il Tempio ne è l’archetipo. “Nessun ignaro della geometria entri sotto il mio tetto” raccomandava Platone, erede di Pitagora. Ma, qui e fin dal principio, è evidente un elemento allegorico imprescindibile, spesso lo ripeto quando mi si dà l’occasione: il Tempio non viene costruito per essere terminato, ma è un’opera destinata ad attraversare i secoli, diretta verso la sua imprecisabile e quindi remota inaugurazione, in un sentimento d’eternità non formulato, ma plasmato da inaugurazioni minori (che sono le opere degli uomini, alcune celebri altre dissimulate, ma non meno importanti), come punti fermi per apprezzare l’indiscutibile avanzamento della costruzione, ma anche come gradi e stimoli rivitalizzanti di cui l’Umanità ha bisogno per mantenere in sospeso una così incommensurabile speranza. Sette scalini saliamo, ma continuiamo a vederne sempre sette. La scala dei grandi misteri non ha mai fine, il senso della vita non si esaurisce, né trova una definizione esaustiva in base alle leggi della logica.

Infatti, ciò che dà un brivido singolare al sogno incompiuto del Massone, è il sospetto contenuto nella voluta manifestazione di questa continua costruzione, l’intuizione della vertiginosa proposta che sorge dall’ininterrotto progetto: lontano come resta da quel che deve essere il definitivo incontro con la sua forma, eppure abbastanza vicino a questa da lasciare intravedere la sua smisurata natura.

Come il lavoro del Massone e del suo Tempio in perenne costruzione, cosi è l’opera dell’Umanità. L’incompiutezza del progetto, del lavoro architettonico di ognuno di noi e dell’Umana Famiglia, non solamente deve essere prevista: è presumibile, necessaria, come la stessa ipotesi del Grande Architetto. Repetita juvant: non c’è il porto, c’è la barca che naviga verso il porto e non giungiamo a destinazione perché la meta è il cammino.

Nelle caratteristiche dell’operatività del nostro Rispettabilissimo Rito, assieme al richiamo all’approfondimento dell’insegnamento pitagorico, si dà rilievo anche alla molteplicità di questi cammini “che la Conoscenza realizza e della diversità delle forme che l’Architettura realizza“. Possono dunque esistere molteplicità d’impostazioni di pensiero. E’ noto e si è più volte messo in evidenza che la Tradizione Occidentale, così come storicamente si presenta nella moderna Massoneria, ha una triplice ascendenza: quella ebraico-allessandrina, la cristiano-cavalleresca e la nostra, quella ellenico-romana, che tra le sue origini dalla Schola Italica, voluta da Pitagora e che è stata la pietra di fondamento di tutta la filosofia analogica occidentale, da
Platone ad oggi. Questo assunto per noi Simbolici è una divisa, e cioè che ogni traguardo verso la Conoscenza richiede all’inizio una scelta discriminatoria, ma che nel procedere del Cammino la forma architettonica prescelta conduce, in ogni caso, alla realizzazione del Tempio. Geometricamente paragoneremo questi cammini ai raggi che partiti da un punto qualsiasi della circonferenza si ricongiungono al centro. In proposito i Fratelli degli altri Riti scopriranno l’esistenza di analogie con la nostra Tetraktys, il cui simbolo viene praticato nelle nostre Logge e Collegi. Rinverranno una piramide nel nostro Quadro di Loggia, o rimanendo nella simbologia del cerchio centrato del grado di Maestro della tradizione anglosassone, il cui valore numerico è 9, la circonferenza, ed 1, il centro, pari a 10 come la Tetraktys, noteranno in questi simboli geometrici, apparentemente diversi – appunto per quell’immutabilità nella varianza -, l’ascesa dal molteplice all’Uno. E’ questa necessaria mutabilità di forme che mantiene tra noi quello spirito di vicendevole rispetto, quella mutua deferenza ed ammirazione, quella concordia in questo grande Ordine e che, pur lasciando ai diversi Maestri che lo compongono la facoltà di scelta del Rito che gli è più congeniale, come in tutte le grandi opere della natura, sa conciliare la molteplicità con l’armonia in una medesima, unica, indissolubile Famiglia. En to pan

Dunque fin dall’antichità più remota l’obiettivo dell’iniziatica Famiglia fu d’adeguare la natura all’ordine cosmico e di far emergere l’ordine dal caos. Al ciclico ritorno dell’Età dell’Oro sta uno sforzo di approssimazione che ha alla sua base i potenti strumenti della muratoria, il tentativo di ri-creare, mattone dopo mattone, il Tempio più umano e quindi più divino.

Vi sarà dunque un modo! Tradizionalmente si chiama in causa l’uguaglianza geometrica, appunto proporzionale. La sacra tetraktys rappresenta per noi il modo più fecondo della realizzazione dell’ordine nel disordine e quindi dell’unità nella molteplicità, la connessione a quella misura suprema che è appunto l’Uno, il Sommo Bene, il Bello, il Giusto. Quell’Uno che lega la molteplicità ed esplicandosi in essa fonda la simmetria cosmica. Guai a chi persegue l’eccesso e trascura la geometria, perchè cielo e terra e dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dall’ordine, dalla temperanza e dalla rettitudine. La eco dell’En to Pan , uno di quei pochi e saldi principi della Filosofia Perenne o Tradizione, ascoltiamo oggi nelle parole dei modelli sistemici di quanti – fisici, biologi, neurofisiologi, ecc. – si richiamano ad un approccio olistico e che sono sintetizzate nell’esergo de La rete della vita di Fritjof Capra;

Questo sappiamo. Che tutte le cose sono legate come il sangue che unisce una famiglia. Tutto ciò che accade alla terra accade ai figli e alle figlie della Terra. L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è soltanto un filo: Qualsiasi cosa fa alla trama l’uomo lo fa a se stesso“.

Abbiamo parlato della squadra, diremo del compasso. Quando usiamo la locuzione “rimettere in sesto” o il verbo “assestare” abbiamo forse scordato che, etimologicamente, hanno strettissime attinenze col compasso, la cui apertura corrisponde ad un sesto della circonferenza descritta e perciò l’arco a tutto sesto, per i muratori operativi fu dunque il simbolo della precisione esecutiva, dell’ordine e dell’armonia?

Platone ci invita per quanto ci è possibile a farci simile a Dio e la giusta misura né è la condizione imprescindibile. Si narra che un giorno gli chiesero “che cosa fa Dio?“.”Geometrizza senza interruzione” rispose. E nel Timeo pitagorico ci indica come modello Colui che possiede in misura adeguata la scienza e ad un tempo la potenza per coagulare molte cose in unità e per scioglierle dall’unità in molte. Cercheremo dunque la giusta misura. Opereremo come Colui che perfettamente attua la misura di tutte le cose, il Grande Architetto dell’Universo. Per quel nesso metafisico ci sforzeremo noi, più piccoli ma analoghi maestri architetti di fare ordine e produrre armonia in tutte le cose che da noi dipendono, ossia nell’etica, nella politica, nelle opere tecniche ed artistiche.

A noi sono concesse le chiavi dell’ermeneutica della storia. Ne rinverremo la matrice nella lucida tolleranza di Roma, i loro stampi in epoche le cui denominazioni suonano famigliari agli Iniziati, il Rinascimento…l’Età dei Lumi…il Risorgimento…laddove il tentativo di restaurazione del legame con le strutture esoteriche del cosmo guidò la trasmutazione del mondo in campo politico e sociale.

Felice è la città dove i filosofi sono re e i re sono filosofi!” diceva sempre Platone. “Gli esoterismi, con il loro potere di agire sui piani ideologici, guidano il mondo” afferma Jean Marques-Rivière. Sui manifesti del nostro Ordine sta scritto “la Massoneria cambia le idee del mondo“. Il nostro Ordine auspica un nuovo umanesimo. Cederemo alla tentazione, mirando ai sette scalini che sempre ci stanno di fronte, di intravvedere e trepidare poi per un nuovo rinascimento, dove la forza, come le nostre tre luci, sia sempre congiunta alla sapienza e alla bellezza? Sette scalini saliamo, ma continuiamo a vederne sempre sette. Giacché ogni conquista è pietra di fondamento della successiva, e non vi è un termine alla nostra architettonica fatica. Non v’è limite alla conquista perché non v’è limite al sogno.

Sentiamo ogni tanto serpeggiare la critica ad un Rito, il nostro, poco esoterico e piuttosto politico.

Sarà noto che pur essendoci interdetta ogni politica d’azione esterna come Corpo Rituale, lasciando ai suoi Adepti ampia libertà d’azione nel mondo profano, secondo la loro coscienza, sul terreno religioso, filosofico e politico, senza dar loro alcuna parola d’ordine, il lavoro svolto nei Collegi dei MM.AA. è tanto iniziatico quanto implicante proiezioni culturali e politiche. Diamo al termine politico il significato originario di arte di governare gli uomini al bene ed all’equilibrio interiore, origine della felicità. Dovrebbe perciò esser chiaro che per il deposito pitagoreo che custodiamo, il nostro modello riposa sulla scienza delle proporzioni e delle corrispondenze, nella consapevolezza che l’uomo e la società sono organismi la cui salute e felicità dipende dalle relazione che unisce le parti con il tutto. Né Pitagora, né Platone obliarono l’archetipo e il paradigma dell’esoterica scienza analogica, per cui la Pòlis non essendo che l’uomo stesso sviluppato, deve rappresentare un immagine dell’uomo, come l’uomo stesso rappresenta un’immagine dell’universo e l’universo un’immagine del suo Architetto. La nostra è dunque Tradizione in atto e sua proiezione e orientamento alla storia vivente, illuminata dall’esoterismo e pertinente al mito e all’esatta, matematica, misura dei rituali praticati.

A quanti per vocazione, pur guarnendo le colonne dei nostri Templi, preferiscono forme estremamente individualistiche dell’esoterismo o per disincanto considerano vana ogni azione nell’Opera al Nero del Kali-Yuga…ad essi un momento di riflessione sul simbolo che non può che essere che quello della conversione dello sguardo su sé e sul mondo. Tornino i tempi della riconciliazione con Sé, cioè con gli altri e con l’Universo, derivata da un Cosmo solidale, rigenerato dal simbolo, solo mediante esso la teofania continua e sacralizza il mondo nella nostra coscienza. Questo tempo unificatore non ha mai disertato la temporalità dell’esperienza umana.

Potremmo infatti assimilare l’Uno alla Tradizione e le successive generazioni numeriche alla trasmissione e dedurne che non c’è tradizione senza trasmissione, non c’è origine senza una direzione nello spazio e nel tempo. Ciò che si tramanda non è dato perché permanga, non è un’inerzia, una riproduzione dell’identico, ma perché esso dia nuovamente i suoi frutti. Lavorando questa materia prima, l’erede, “lavora se stesso” e arricchisce il suo legato. La tradizione non è dunque solo ritorno al passato o aristocratico isolamento, chi la riceve non è solo il geloso depositario di una fiamma sacra ma è anche il custode che la ravviva e la corrobora,
l’azione dell’esoterismo non è separazione, è soprattutto ri-creazione. Guai alla fiaccola posta sotto il moggio che non illumina come dovrebbe. La tradizione come insegna l’alchimia è la materia prima da rielaborare, per la muratoria la pietra da squadrare. Scriveva Pound nei Cantos: “Costruire il Cosmo -/Compiere il possibile/…un po’ di luce nel buio pesto/…Puoi tu penetrare nella ghianda di luce?…Un po’ di luce come un barlume/ci riconduca allo splendore“. Il tempio offre un ambiente insostibuile per far maturare sotto la sua
volta stellata alcune idee e distillarle poi nel tessuto sociale. E’ anche per quanto riguarda il nostro Tempio interiore vivente dovremo sempre più affondare nelle profondità del nostro essere, all’origine e non lasciare la presa fino a che non si sia estratto il suo Uno, la sua radice vivente e vivificante. VITRIOL. Solo allora tutti i frutti che dobbiamo portare, secondo la nostra natura ed il nostro talento, si produrranno naturalmente in noi e fuori di noi, nella società e nel mondo, come avviene ai nostri alberi terrestri, come avviene
nella TETRAKTYS rovesciata, poiché aderiscono alla loro radice e ne estraggono il succo. Niente la natura ama tanto come mutare le cose – ci descive il pitagorico Ovidio nelle Metamorfosi– condurne alla ribalta sempre di nuove, perciò la nostra azione è seme di un’altra e frutto della precedente. Un’espressione del Vedanta dice: “puoi contare il numero di semi in una mela, ma non puoi contare il numero di mele in un seme, perché in ogni seme esiste la promessa di miglia di manifestazioni“. Dall’uno al quattro – è lo spostamento dal non manifesto al manifesto – la meccanica della creazione …E’ qui quel lavoro iniziatico, esoterico e “politico”… E’, per dirlo con una formula, situarsi all’origine delle proprie virtualità e potenzialità interiori, abitare l’invisibile e radicarsi nel mondo. “essere -come dice la letteratura cristiana- non di questo mondo, ma nel mondo“. Ci è di consolazione che il nuovo paradigma della fisica è quello della Tradizione. Esso reclama a tutti, anche ai profani di cambiare la visione del mondo, di non vedere più le cose come separate, ma di vedere l’universo come un campo d’intelligenza dinamico e indivisibile, in cui ogni cosa e collegata con ogni altra. Dono divino- si diceva- fu il rispetto – rispetto deriva da respicio. Nell’altro da me appunto mi rispecchio. Chi infatti, socraticamente, è riuscito a conoscersi impara per ciò stesso a relazionarsi con ciò che, erroneamente, è creduto l’altro da sé, a discernere l’Unità fondamentale nell’identità del tutto. Con questo lavoro di profondità ed equilibrio, il pensiero, attraverso la meditazione, giunge a conoscere mentalmente ogni cosa, ad appropriarsene per amarla.

Se questa è la conoscenza che ci è concessa bisognerà pur riconoscere che l’amore, il fraterno legame con tutto è la cosa più importante, l’energia, la forza motrice, il prana, l’ultima ed autentica esperienza. Occorrerà poi smettere di chiederci sempre “che ci guadagno?” e modificare il dialogo interiore, tramutando il metallo, in “cosa posso fare per l’altro?”, spostandoci dall’io al Sé, alla coscienza universale. Di cosa abbiamo bisogno? si chiede la sentinella vigile e intransigente dell’Ordine. La risposta scoveremo nelle parole, del XIII secolo,del Maestro Sufi Rumi: ” Perché non vuoi che la parte si ricongiunga al tutto, il raggio alla luce? Nel mio cuore contengo l’universo, attorno a me, il mondo mi contiene….La cosa più importante che puoi fare nella vita è diventare un amante appassionato, e se sei un amante appassionato nella vita, allora sarai un amante nella morte, sarai un amante nella tomba, sarai un amante nel giorno della rinascita, sarai un amante in paradiso e sarai un amante per sempre. Ma se non hai imparato come amare, allora non considerare la tua vita come una vita vissuta. Nel giorno della resa dei conti, la tua vita non conterà“.

E mi sembra conveniente concludere, un ultima volta, ancora con i versi del poeta Rubén Darìo, un poeta e diplomatico nicaraguense dell’Ottocento, un simbolista e…-poteva essere diversamente?- un Fratello Libero Muratore, trovati per coincidenza e che mi paiono appunto, al tempo stesso una chiave ed un compendio di quell’analogia, che come affermavano Platone e Plotino, “regge tutto”, di quella divina proporzione che tutto lega, di quella giusta armonia che tutto dovrebbe pervadere:

AMA IL TUO RITMO

Ama il tuo ritmo e ritma le tue azioni

secondo la sua legge, e insieme i versi;

tu sei un universo di universi

e, nell’anima, fonte di canzoni.

La celeste unità che presupponi

farà nascere in te mondi diversi,

e risonando i tuoi numeri spersi

pitagorizza in tue costellazioni.

Ascolta la rettorica divina

dell’uccello dell’aria, e la notturna

raggera geometrica indovina;

scaccia l’indifferenza taciturna,

perla con perla infila cristallina

dove di verità si versa l’urna.

 

Moreno Neri

Presidente dei Maestri Architetti

del Collegio “Bononia”

del Rito Simbolico Italiano

 

Belmonte Calabro, 19 maggio 2001