OMAGGIO AD ARTURO REGHINI NEL 60° ANNIVERSARIO DELLA MORTE

Lettera di un tuo “contemporaneo” discepolo

“Ma perché piene son tutte le carte”
Purgatorio XXXIII, v. 139

La lapide del loculo contenente i resti di Arturo Reghini nel cimitero di Budrio (BO). L’iscrizione è la medesima già posta sulla precedente tomba a cura del Fratello Giulio Parise.
La lapide del loculo contenente i resti di Arturo Reghini nel cimitero di Budrio (BO). L’iscrizione è la medesima già posta sulla precedente tomba a cura del Fratello Giulio Parise.

Carissimo Arturo, che cos’è una lettera, se non l’urgenza di comunicare con chi ci è caro, ma lontano?

Ti scrivo questa mia perché tante sono le cose che dentro mi urgono e come sai il contatto epistolare tiene legati, annullando qualunque distanza. Per prima cosa vorrei dirti che ho letto con attenzione e commozione tutte le tue missive. È vero; non erano dirette a me, ma da quando ho iniziato ad apprezzare quello che scrivevi, ho preso anche il vizio di impicciarmi degli affari tuoi! Così, oltre ai tuoi libri ho conosciuto anche il tuo vivere quotidiano.

Questa sera, nel giorno del sessantesimo anniversario dalla tua scomparsa, voglio rivolgermi a te direttamente, come si fa con un amico oppure ad un fratello che non si vede da tempo, e per questo sento di essere particolarmente emozionato.

È come se ora, rivedessi davanti a me la tua imponente figura, mentre da solo – combatti – in piedi ed ad armi pari – l’ultima tua lotta con il dàimon. Vedendoti, quasi toccandoti, percepisco il tuo spirito che si stacca definitivamente dal tuo corpo, allenato da tempo com’era ad abbandonare le sue vesti corporali, secondo gli antichi e più segreti dettami pitagorici. Mi è capitato di vedere questa immagine con gli occhi della mente per una sola volta, ed inutili sono stati i tentativi di tenerla fissa in me più a lungo, poiché l’immagine come “misticamente” era venuta, svanì furtivamente in evanescenza.

Col passare del tempo, ho capito che essa era in fondo la stessa scena che gli Aurea Versa, i 72 precetti attribuiti a Pitagora, tratteggiano con lapidaria sapienza quando recitano:

Così se il corpo lasciando, nell’etere libero andrai
spirituo nume immortale, non più vulnerabile tu sarai.
(71-72 verso)

Non è un caso Arturo, se ho scelto per traccia di questo mio intervento, la tua ultima lettera indirizzata al tuo fraterno amico, nonché maestro nella via iniziatica pitagorica, Amedeo Rocco Armentano.

Credimi, come lui fu per te un Maestro, Tu lo sei stato e lo sei tuttora per me. In anni di studi e di approfondite letture, nei tuoi scritti ho ritrovato quello che da sempre andavo cercando: non le solite esoteriche vuote parole, piene di promesse o di capziose verità. Parole buone per tutte le credenze, per tutti i gusti teologici o per slanci pseudo-mistico emotivi. Spesso ed il più delle volte dietro a quelle dottrine si cela il vuoto più sconvolgente ed il loro vero scopo è di asservire, piuttosto che liberare coloro i quali ad esse si rivolgono per risolvere o lenire magari, i mali di un avverso destino.

È merito della tua vasta opera di divulgazione iniziatica e metafisica, se ancora oggi l’equilibrato rigore e l’armonico insegnamento pitagorico sopravvivono come la mitica Fenice in mezzo al frastornante affollarsi di indefinite “dottrine” e “tecniche spirituali”, che si presentano come iniziatiche soltanto per chi non conosce il significato della Vera Via iniziatica e per loro tramite quelle ignare vittime sono “sballottate qua e là come su mobili rulli” dai loro stessi burattinai, “in mezzo ad interminabili urti” umani, psichici e spirituali (58o verso).

Come l’uomo antico guardava alle Religioni dei Misteri come ad un faro illuminante la sua desolata e breve esistenza umana, così noi uomini dell’oggi, secolarizzati dall’assenza di valori eterni in cui credere, possiamo avvalerci della ricostruzione sapiente e paziente che tu hai portato avanti a costo d’innumerevoli sacrifici e privazioni d’ogni genere, con la restaurazione della Tradizione Iniziatica occidentale, rivivificandone contenuti e significati, all’interno della compagine Liberomuratoria.

Cercherò ora di dirti con parole semplici, quale è stato l’insegnamento che ho tratto personalmente dalle tue opere e dal tuo esempio di vita.

Foto di Arturo Reghini a Budrio negli anni ’40 del secolo scorso.
Foto di Arturo Reghini a Budrio negli anni ’40 del secolo scorso.

La via pitagorica è caratterizzata dall’equilibrato connubio tra le forze impiegate. Non per nulla, l’approfondimento e lo studio dei Versi Aurei, mano a mano che si interiorizzano, danno come risultato una duplice tecnica: morale e comportamentale da una parte, ascetica in senso purificatorio e catartico, dall’altra. La rigorosa disciplina pitagorica prevede tuttavia una rituaria molto semplice, che consiste in due appuntamenti quotidiani, uno non appena svegli e l’altro, prima di andare a dormire. Momenti realizzati entrambi con una presa di coscienza netta e sobria di tutto quanto ci è accaduto o dovremo ancora compiere, durante l’arco della giornata. È una tecnica essenziale questa, in cui la pratica sostituisce ogni e qualunque parola. E la tua pratica, Arturo, è divenuta per me “parola”, trascendendola. Il tuo insegnamento, insomma, è il tuo stesso esempio che ha reso vivente e vitale la frase dantesca: “Ma perché piene son tutte le carte”.

Ed è proprio con questa frase che chiudevi l’ultima tua lettera, datata 21 aprile 1946, a soli 70 giorni dalla tua morte, lettera indirizzata ad Armentano che risiedeva ormai definitivamente a S. Paolo del Brasile. Combinazione volle che quell’anno la Domenica di Pasqua coincidesse con il natale di Roma. Questo ti permise di trovare il tempo e forse anche le forze necessarie, per rispondere a tua volta, alla lettera che Armentano ti aveva spedito agli inizi di quello stesso anno.

In questa tua lunga risposta, facevi un’analisi ad ampio raggio del tuo vissuto, scrivendo praticamente un compendio dei fatti salienti della tua intensa vita. Ma durante la stesura di questo riassunto, man mano che esso procede si avverte che sta assumendo sempre più le forme di un vero e proprio testamento e dal tono s’intuisce che al di là dei fatti contingenti narrati, il motivo evidente era quello di poter inviare un ultimo e personale addio all’amico e maestro Armentano.

È dalle tue stesse parole che apprendiamo quanto tu fossi consapevole della gravità della malattia che ti stava indebolendo, ma soprattutto eri pienamente cosciente che quel 21 aprile era certamente l’ultimo dies natalis di Roma che ti era concesso di vivere su questa terra.

Frattanto – scrivevi – anche la salute mi desta serie preoccupazioni. Da parecchi mesi si è manifestata una specie di ulcera alla guancia sinistra. Pare, che la cura vada bene, ma non è ancora finita e se dovesse seguitare, non avrei i mezzi finanziarii per condurla a termine”.

Si trattava di una tumefazione d’origine tumorale, che portava con sé già i primi segni di un aggravamento, per la comparsa di cellule metastatiche ai danni di altri organi. Ma il rammarico per l’appressarsi della fine della tua esistenza era da Te vissuta come una stoica liberazione, poiché su di essa ti esprimevi scrivendo con pacatezza: “Non pare che la mia vita debba essere lunga; ma è forse meglio così, perché nelle condizioni attuali non posso far nulla e diventa sempre più difficile procurarsi il minimo necessario per l’esistenza, sebbene l’intelligenza, la memoria e la resistenza al lavoro siano quelle di sempre”.

La descrizione degli ultimi attimi della tua vita, ce l’ha trasmessa il tuo amico, discepolo e primo biografo, Giulio Parise che ce la ha comunicata esattamente in questo modo:

Il primo giorno del mese di Luglio del 1946, lo spi¬rito di Arturo Reghini scioglieva i legami corporei e pas¬sava nell’Eterna Luce. Era la quinta ora pomeridiana. Il segno era apparso. Arturo Reghini si volse, al Sole declinante per l’ultimo saluto, per l’ultimo rito; poi si appoggiò con la destra al vicino scaffale, piegò la gigan¬tesca statura verso la Gran Madre, ed eretto il busto; fu libero”.

In una recente biografia scritta su di Te ed edita dalla storica casa editrice Atanòr, l’Autore assimila questa descrizione della tua morte alla stregua di un “racconto sacro…dal solenne epilogo”. Sempre secondo l’Autore, queste notizie sarebbero servite a creare strumentalmente quell’alone di mitizzazione della tua figura che sarebbe dovuta scaturire di lì a poco, fra i tuoi ammiratori ed agiografici conoscenti, facendoti toccare quasi l’apoteosi di un “eroe greco”, con la conseguente tua “trasformazione in un disincarnato semidio”.

Ritengo di poter affermare al contrario, che quella “epica” descrizione di Parise fu determinata da diversi fattori, ma è da escludere in modo categorico che questi siano stati di natura agiografica o di mitopoiesi. Tra l’altro, saresti stato tu stesso il primo – non è vero, Arturo? – a non apprezzare il tentativo di farti passare per un Guru, per un Maestro o per chissà quale altra cosa.

Tomba di Arturo Reghini nel cimitero di Budrio, prima della traslazione dei suoi resti nel loculo.
Tomba di Arturo Reghini nel cimitero di Budrio, prima della traslazione dei suoi resti nel loculo.

In una tua lettera, inedita per noi fino a pochi mesi or sono, avevi scritto molto chiaramente cosa pensavi del malvezzo di esaltare la figura del proprio maestro spirituale, da parte dei suoi discepoli. Dicevi a questo proposito: “A questa venerazione non è prudente dare eccessiva importanza, perché la tendenza alla esaltazione del Maestro è comune a tutte le scuole e se nel [caso] di Pitagora o di Laotzeu, di Mazzini o di Rama Krisna può ritenersi giustificata, in altri casi è sicuramente immeritata.”

Al di là di questo, penso dunque che Parise ebbe ben chiaro in mente di evocare nel lettore un profondo rispetto, destandogli un’emozione pari almeno a quella evidentemente provata da lui stesso per essere rimasto “orfano” – diciamo così – del suo illustre maestro. Sia detto poi qui per inciso: quello che scrisse Parise all’indomani della tua morte e sugli ultimi momenti della tua vita, era il puro e semplice resoconto di quanto ne aveva riferito l’unico testimone oculare lì presente che, come ben sai, fu la prof. ssa Camilla Partengo.

È evidente che lo scopo che dettò a Parise quelle scarne ma emblematiche parole, fu quello di conservare il più a lungo possibile la memoria della tua esemplare grandezza, fortezza umana e pitagorica insieme, che erano state in te sempre d’altissimo livello, né mai ti fecero difetto. Inoltre quei supremi momenti sarebbero dovuti essere, e potuti servire di monito e d’augusto esempio a chiunque abbia oggi come ieri, profonde e sincere velleità nel campo della spiritualità e della metafisica.

Carissimo Arturo, concludo qui questa mia lettera apponendovi un messaggio che spero sia augurale: voglio uscire dal fideismo religioso che oggi vela più che mai le iniziatiche Istituzioni e come Te ed insieme a Te, perseguire la vera Via Tradizionale. Sperimentare per Conoscere e non per credere. Praticare in silenzio gli Antichi Detti, poiché mai come oggi… le Carte sono davvero piene.

Guido Boni