FRATELLI D’ITALIA!...


Fratelli d’Italia,

l’Italia s’è desta;

dell’elmo di Scipio

s’è cinta la testa;

dov’è la vittoria?

Le porga la chioma,

ché schiava di Roma Iddio la creò.

 

Stringiamci a coorte,

siam pronti alla morte,

Italia chiamò.

 

Noi siamo da secoli

calpesti e derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi;

raccòlgaci un’unica

bandiera, una speme;

di fònderci insieme

già l’ora suonò.

 

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte,

Italia chiamò.

 

Uniamoci, uniamoci,

l’unione e l’amore

rivélano ai popoli

le vie del Signore;

giuriamo far libero

il suolo natìo;

uniti per Dio,

chi vincer ci può?

 

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte,

Italia chiamò.

 

Dall’Alpe a Sicilia

dovunque è Legnano;

ogni uom di Ferruccio

ha il core e la mano;

i bimbi d’Italia

si chiaman Balilla:

il suon d’ogni squilla

i Vespri suonò.

 

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte,

Italia chiamò.

 

Son giunchi che piegano

le spade vendute;

già l’aquila d’Austria

le penne ha perdute;

il sangue d’Italia

e il sangue polacco

bevé col cosacco,

ma il cor le bruciò.

 

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte,

Italia chiamò. 

versi: Goffredo Mameli

musica: Michele Novaro

1847

 

Dobbiamo alla città di Genova - da allora città di cantautori – “Il Canto degli Italiani”, meglio conosciuto come “Inno di Mameli” o “Fratelli d’Italia”. Scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l’Austria. L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al “Canto degli Italiani” - e non alla Marcia Reale - il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a “God Save the Queen” e alla “Marsigliese”. Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l’Inno di Mameli divenisse l’inno nazionale della Repubblica, adottato da De Gasperi che lo preferì alla “Canzone del Piave”, dicendolo “provvisorio” nella carta costituzionale, ma ormai di una provvisorietà del tutto evaporata. Solo nel 1973, grazie ad una disposizione dello Stato Maggiore della Difesa, fu riconosciuto ufficialmente come inno nazionale italiano.

Il nostro inno nazionale fu dunque composto a Genova tra il settembre e il dicembre 1847 dal ventenne Goffredo Mameli, che due anni dopo cadde eroicamente combattendo alla difesa di Roma. Musicato a Torino dal maestro Michele Novaro, esso divenne l’inno d’Italia e risuonò sui campi di battaglia nella guerra del 1848-1849.

Se una figura umana dovesse simboleggiare con l’aspetto d’una seducente giovinezza il Risorgimento d’Italia, che pure ebbe stupendi uomini rappresentativi - Mazzini, Cavour, Garibaldi - non si saprebbe quale innalzare e amare meglio che quella di Goffredo Mameli, nato a Genova nel 1827, l’anno in cui morì Beethoven. Poeta a quindici anni, guerriero a ventuno, avvolto a ventidue nella morte come nella nuvola luminosa in cui gli antichi favoleggiavano la scomparsa degli eroi. Stirpe di marinai soldati, figlio d’un comandante di nave da guerra e d’una leggiadra donna che aveva fatto palpitare il cuore giovane di Giuseppe Mazzini, Goffredo è il romanticismo, è il patriottismo, è sopra tutto la poesia che fiorisce sull’azione. Frequenta l’università, prepara i suoi esami di diritto e intanto fiammeggia nel fuoco d’italianità dei suoi compagni, che lo sentono un capo. Appena giunta a Genova la notizia delle Cinque Giornate parte alla testa d’un manipolo di giovani, si batte nella campagna del ‘48; s’agita perché non se ne subiscano con rassegnazione le tristi conseguenze militari, mazziniano puro, con la sua Genova impaziente e intollerante verso la Torino monarchica. È incerto se correre a Venezia o a Roma. Si risolve per Roma. È di Mameli il telegramma “Venite, Roma, Repubblica” in cui si invitava Mazzini a raggiungere la Repubblica Romana. È a fianco di Garibaldi, ma vuole prima di tutto trovarsi dove più rischiosamente si combatte. Ferito ad una gamba il 3 giugno in un combattimento nel quale s’era voluto gettare ad ogni costo, fu male assistito nell’ospedale dai medici che avrebbero dovuto sollecitamente amputargli la parte offesa e invece tanto tardarono che poi l’operazione non valse più a salvarlo, ed egli spirò il 6 luglio, un mese prima di compiere i ventidue anni, recitando versi in delirio. La sua poesia è poesia d’amore e di guerra: pensando a guerre come quelle, i due più alti temi d’ogni poesia, la donna ideale e la libertà pura. Intanto “Fratelli d’Italia” era stato musicato da un suo amico, un maestro di banda, Michele Novaro, pure genovese, più grande di lui di cinque anni. Tanto onore il maestrino genovese non l’avrebbe mai immaginato né lo poté assaporare. Quando morì, il 21 ottobre del 1885, lo fece in dignitosa povertà, come avrebbe potuto scrivere il nostro Fratello De Amicis (ligure anch’egli) autore di “Cuore” che è del 1886. Tutti in casa Novaro erano pittori: Michele seguì la diversa vocazione d’artista ma dalla musica più nota ai cittadini dell’Italia da venire non ricavò una lira. Nato a Genova (nel 1818 per le liste di leva; nel 1820 o nel 1822 secondo altri documenti), studiò canto e composizione. Fece una modesta carriera a Torino, prima di ritornare sotto la Lanterna e legare il suo nome all’opera buffa in dialetto genovese “O mego per forza”, a pezzi vari per orchestra, a ballabili, all’antologia di canti “Viva l’Italia” e alla creazione di una Scuola di Canto Popolare dove compendiò, gratuitamente l’esperienza didattica e la militanza come artista-patriota. Nel 1847 aveva ottenuto l’ingaggio come secondo tenore e maestro del coro al Teatro Regio e al Carignano di Torino. Nella capitale si fece conoscere nei circoli liberali scrivendo canti patriottici e organizzando spettacoli per raccogliere fondi per le imprese garibaldine. Dice l’aneddotica: una sera di settembre del 1847, nel corso di una riunione tra patrioti e appassionati di musica, il pittore genovese Ulisse Borzino portò a Novaro la bozza del Canto degli Italiani che gli mandava Mameli. Com’era accaduto cinque anni prima per la preghiera degli ebrei sulle rive dell’Eufrate divenuta di getto la musica di Giuseppe Verdi del “Va, pensiero”, la lettura dei versi dell’amico Goffredo accese la fantasia. Novaro improvvisò subito la marcia; nella notte ritmo e melodia dell’unica sua imperitura gloria d’artista furono perfezionati  impetuosamente e per questa invenzione non ricevette nemmeno le 50 lire che nel 1834 erano andate a Giuseppe Gabetti (autore della Marcia Reale), ma nel 1869 ebbe la croce di Cavaliere della Corona d’Italia e vent’anni dopo, per iniziativa dei suoi ex allievi, un monumento funebre collocato nel cimitero di Staglieno vicino alla tomba di Mazzini.

Quaranta versi di sei sillabe (senari), più un ritornello di altri tre versi, che ricorre al termine d’ogni strofa: Giosué Carducci scriverà che l’inno “gli era balzato dal cuore ardente nella primavera della sua vita e della nostra patria”. Immediata era stata la notorietà dell’inno. Giuseppe Mazzini, esule a Londra, ne fu subito conquistato (“mi piace assai”) e lo inviò in lettura a Giuseppe Verdi: ma la poesia di Mameli era già stata musicata, appena composta, dal maestro Novaro, amico del poeta. Lo storico Jules Michelet, scorgendo in quei versi “un Canto di fraternità” tra cittadini “stupefatti di sentirsi uniti”, definirà l’inno “la Marsigliese Italiana”. “La poesia, quantunque un po’ trascurata, è piena di fuoco”: è un giudizio coevo riferito da Giovanni Spadolini, il quale esortava comunque a non lasciarsi condizionare dal “linguaggio ampolloso” - culminante nell’immagine dell’Italia che “dell’elmo di Scipio sì è cinta la testa” - e dall’eccesso di espressioni classicheggianti. La romanità dell’inno è tutta “repubblicana” e mazziniana. Risale all’orgoglio dei comuni, si mescola con l’eroismo della Repubblica fiorentina, rende onore ai precursori del Risorgimento. L’enfasi letteraria di Mameli sa farsi storia e poesia civile. I critici, naturalmente, rilevano le imperfezioni artistiche che non mancano. Ma per quel che v’è, ed è tanto, di vivo e di bello, in promessa anche più che in fatto, si può dire che, se fosse vissuto, l’Italia avrebbe avuto in lui un magnifico poeta.  

Come leggerli oggi? La cultura di Mameli è classica e forte è il richiamo alla romanità. È di Scipione l’Africano (235-183 a. C.), generale romano nella II guerra punica, il vincitore di Zama, che tolse ai Cartaginesi la Spagna, sconfisse Asdrubale e Annibale, l’elmo che indossa l’Italia pronta alla guerra e che riprende le virtù militari dell’antica Roma. La Vittoria si offre alla nuova Italia e a Roma, di cui la dea fu schiava per volere divino. La Patria chiama alle armi: in file serrate, come quelle della coorte: la coorte, infatti, era la decima parte della legione romana. Occorrono una bandiera e una speranza (speme) comuni per l’Italia, nel 1848 ancora divisa in sette Stati. Nella strofa successiva, mazziniano e repubblicano, Mameli traduce qui il disegno politico del creatore della Giovine Italia e della Giovine Europa. “Per Dio” è un francesismo, che vale come “attraverso Dio”, “da Dio”. Nella strofa seguente, Mameli ripercorre sette secoli di lotta contro il dominio straniero. Anzitutto, la battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse Barbarossa. Poi, l’estrema difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall’esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il capitano Francesco Ferrucci. Ogni bimbo Italiano è come Balilla, fanciullo genovese che, secondo la tradizione sebbene non storicamente certo, iniziò l’insurrezione vittoriosa di Genova contro l’Austria nel 1748). Ogni “squilla” significa “ogni campana”. Ogni campana Italiana ha suonato minacciosamente, come suonarono le campane, la sera del 30 marzo 1282, per i Vespri Siciliani, muovendo il popolo di Palermo a insorgere contro i Francesi di Carlo d’Angiò. L’Austria era in declino (“le spade vendute” sono le truppe mercenarie, deboli come giunchi: non hanno tempra né vigore) e Mameli lo sottolinea fortemente: questa strofa, infatti, fu in origine censurata dal governo piemontese. Insieme con la Russia (il cosacco), l’Austria aveva crudelmente smembrato la Polonia. Ma il sangue dei due popoli oppressi si fa veleno, che dilania il cuore della nera aquila, simbolo degli Asburgo. Schieriamoci in battaglia. Siamo pronti alla morte. L’Italia ci ha chiamati.

Forse potrebbe ancora essere insegnato a scuola. Peccato che i programmi scolastici non lo prevedano, nemmeno come appendice di educazione civica.

“Retorico”, “enfatico” e “ridondante” quando va bene, messo in discussione, scoperto sconosciuto, “marcetta funebre che molesta le nostre orecchie ad ogni alzabandiera”.

Del resto come può andare bene a coloro che vogliono ‘disunire’, anziché ‘unire’ e ‘disprezzare’, anziché ‘amare’?

Per fortuna Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica, sul tema ha sempre avuto idee geniali: affidare a dei grandi musicisti il compito di dirigere l’inno di Mameli.


Goffredo Mameli
(Museo del Risorgimento di Genova)