RITO SIMBOLICO ITALIANO 

STUDI DI ORDINAMENTI INIZIATICI


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LEON BATTISTA ALBERTI E LA TRADIZIONE ROMANA

(Articolo pubblicato da “La Cittadella” - Anno V, nuova serie, n° 20, ottobre-dicembre 2005 e riprodotto per gentile concessione dell’autore)

Leon Battista Alberti (Genova 1404-Roma 1472) è oggi considerato il più grande architetto del Quattrocento, e Roma lo ha giustamente onorato di recente con una mostra (La Roma di Leon Battista Alberti. Architetti, umanisti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento) tenutasi dal 24 giugno fino al 18 ottobre 2005 ai Musei Capitolini. Ma l’Alberti rappresenta anche un’interessantissima figura di umanista integrale, la cui cultura e competenza spaziavano dall’architettura e dalla scultura alla poetica e alla grammatica, dalla musica all’ottica . Si legge qui la lezione di quello che fu l’auctor dell’Alberti: il romano Vitruvio con il suo De architectura, testo (dedicato ad Ottaviano) in cui si ha la massima nobilitazione di quest’arte e la teorizzazione della necessità di una vasta doctrina nella figura dell’architetto, destinato a realizzare edifici secondo le regole della symmetria e dell’eurythmia d’ispirazione pitagorico-platonica .
L’albertiano De re aedificatoria, scritto tra il 1450 e il 1452, si può definire un moderno trattato vitruviano, e vi si può vedere il rimanifestarsi di un’ars muratoria e pitagorica profondamente classica e romana, - pensiamo al Tempio di San Sebastiano a Mantova: “un edificio in cui viene ripresa l’idea del ‘templum etruscum’” , e al Tempio Malatestiano di Rimini, la cui fronte ripropone il modello dell’arco romano, esplicitamente quello dell’arco augusteo della città romagnola - ars in cui l’esperienza degli antichi è rivissuta al di fuori della pura imitazione, ma in una sintesi mirabile di fedeltà e di originalità che ai Fiorentini faceva dire: Albertus vincit ipsum Vitruvium. D’altra parte, tutto ciò aveva una controparte interiore, se le regole auree della costruzione (esplicitamente pensata e realizzata come tota philosophia: De re VII, 10) vennero dal Nostro applicate sapientemente anche alla propria vita interiore, talché l’Alberti fu noto per i suoi costumi austeri in un’epoca in cui le tendenze erano per lo più altre. E come non ricordare, a questo punto, che ai propri nipoti nel 1462 indirizzò un suo manoscritto avente per oggetto le Sentenze pitagoriche?
L’Alberti sentì il richiamo potente del mondo classico anche nel suo progetto educativo, esposto nei Libri della Famiglia, scritti tra il 1434 e il 1441. Qui prende voce il ricordo del padre, del quale risuscita quei conversari con gli amici in cui si rimpiangeva “l’antiquo amplissimo nostro imperio” e si lamentava il “noi populi italici così trovarci privati della quasi devuta a noi per le nostre virtù da tutte le genti riverenza e obedienza”, nonché il perdersi “della nostra gentilissima lingua latina” (dal Proemio del Libro III), lingua conosciuta benissimo da Leon Battista, che però fu tra i coraggiosi sostenitori del valore letterario del volgare (da ricordare che egli era di famiglia fiorentina: nacque a Genova perché il padre vi si trovava in esilio).
Nel desiderio di veder tornato a splendere il primato di “noi populi italici”, ecco dunque da parte dell’umanista-pedagogo la proposta di un’educazione d’impronta greco-latina, nella quale agli studia humanitatis si affianchino le discipline fisiche all’aria aperta, tra cui l’equitazione, necessaria per “al bisogno essere contro gli inimici della patria utili”, ed elogiata col ricordo di “que’ giuochi troiani quali bellissimi nella Eneida descrive Virgilio” (dal Libro I). E che tutto ciò non fosse mero esercizio letterario lo si desume dal fatto che l’Alberti stesso “domava cavalli, era imbattibile nelle gare di giavellotto, riusciva a trafiggere una corazza a colpi di freccia e a gettare una mela al di là della cupola dell’enorme cattedrale di Firenze” .
Nel suo notevole saggio su Leon Battista Alberti e l’antichità romana, Stefano Borsi sottolinea del resto come l’autore del De re aedificatoria “mostra un vivo interesse anche per gli aspetti politico-istituzionali dell’antica Roma, per la sua storia civile prima dell’impero” . La sua romanità è infatti più quella arcaica e repubblicana che quella imperiale, così che in De re VIII, 7 il riferimento all’epoca in cui a Roma si coniava l’asse in bronzo con l’effigie di Giano si fa “immagine mitica dell’austera vita dei primi Latini” , mentre nei ripetuti richiami albertiani alle XII Tavole si unisce “al fascino di queste venerande fonti giuridiche la naturale propensione di Alberti per ‘poche leggi, ma buone’ come sarà esplicitato nel De iciarchia in polemica con la moderna fibrillante proliferazione di decreti della repubblica fiorentina” .
Questa romanità spirituale dell’Alberti non poteva non portarlo a vivere a Roma, dove tra il 1432 e il 1472, anno della morte, risiedette pressoché costantemente. Per questo soggiorno nell’Urbe Franco e Stefano Borsi hanno parlato de “il fascino e il significato del lungo, enigmatico periodo romano dell’artista” . E su tale periodo occorre soffermarsi per intravvedere i rapporti che l’Alberti ebbe con quei personaggi e quei circoli che possono variamente esser connessi alla tradizione romana in quel quarantennio che vede susseguirsi i pontificati di Eugenio IV, Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II e Sisto IV.
Vincenzo Di Caprio ha evidenziato come a quel tempo a Roma si confrontassero, intrecciassero e scontrassero più linee dell’“ideologia classicista” . Una prima risulta essere quella egemonica dell’umanesimo curiale, teso ad “un’apologetica del potere pontificio basata proprio sull’universalismo classico-cristiano” : è la linea dei papi umanisti, soprattutto di Niccolò V. Una seconda è quella di un “platonismo romano” connesso con il filo rosso che lega l’insegnamento fiorentino del greco e pagano Giorgio Gemisto Pletone alla formazione di ambienti in cui, come nella Firenze medicea, prisca theologia e cristianesimo si fondono attraverso la mediazione neoplatonica, e per i quali il punto di riferimento è, oltre al tedesco Niccolò Cusano , un altro sapiente greco: il monaco basiliano Giovanni Bessarione, discepolo di Pletone ma lontano dal dichiararsi al modo del suo maestro apertamente pagano, tanto che, dopo il Concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39 per la riunificazione delle Chiese latina e greca, rimane in Italia come cardinale cattolico, così che detta linea è efficacemente incuneata all’interno dello stesso Collegio dei cardinali (si noti che il Bessarione fu ben due volte vicino ad essere eletto papa...).
Una terza linea è ancora quella di “un classicismo diffuso al di fuori dell’ambiente di Curia e mosso da esigenze ideologiche rapportabili all’eredità della tradizione municipale romana” . E qui si scorge “l’esile ma importante filo di un diverso rapporto con l’antichità classica romana che tende a sottrarre alla Curia l’egemonia di questa tradizione, non solo sul terreno della rivendicazione di un’eredità di gloria, ma anche su quello stesso, antiquario ed erudito, su cui l’umanesimo curiale si era mosso” . Questo “filo”, mentre ci riporta indietro fino a Cola Di Rienzo , ha il suo punctum a quo quattrocentesco nella figura di Stefano Porcari. Il Porcari, che si voleva discendente dalla gens Porcia, aveva in proprio una concezione secondo cui la romanità sarebbe stata “un patrimonio esclusivo di cui i Romani sono gli unici eredi diretti, un insieme di valori non solo aventi, come è naturale in un’ottica classicistica, una validità universale, ma anche perennemente attuali non in nome di questa universalità ma in nome di una trasmissione quasi biologica: sempre potenzialmente attivi nei Romani, appunto in quanto Romani, basta richiamarli alla coscienza perché diventino operanti” . Questa linea è quella che culminò in uno scontro aperto col potere papale, poiché Porcari, rivendicando la romana libertas dapprima (1447) come maggiore autonomia della Città dalla Chiesa, quindi (1453) come instaurazione di una Romana respublica da attuarsi tramite una congiura che forse avrebbe goduto dell’appoggio del re di Napoli, finì impiccato .
La quarta linea è per noi la più interessante, ed è quella dell’Accademia romana di Giulio Pomponio Leto. Questa si intreccia profondamente con le altre, poiché sorge in rapporto alle istanze umanistiche del papato, ma si distingue presto per un’impronta fin troppo esplicitamente pagana, che da un lato sembra da mettersi in relazione con la corrente del Bessarione, cui si deve la circolazione a Roma di Proclo e perfino dell’Oratio IV al Sole dell’imperatore Giuliano - il che fa ritenere che il cardinale Bessarione abbia preso solo entro un certo limite “pubblico” le distanze dal suo maestro Gemisto , - dall’altro ha una sua facies squisitamente romana, poiché è manifesto il suo richiamo anche rituale alla religio prisca di Roma (cerimonie per il 21 aprile, restaurazione occulta del pontificato massimo ecc.). In questo suo romanesimo integrale, l’Accademia pare debba legarsi con la linea municipalistica del Porcari, tanto che nel 1468 papa Paolo II la scioglie e ne imprigiona i membri con accuse pesantissime “che vanno dall’eresia al neopaganesimo all’accettazione della confutazione valliana della veridicità della donazione di Costantino” , fino a quella, appunto già imputata al Porcari, di voler rovesciare il potere temporale dei papi.
In tale ambiente variegato si muove la vita romana, e non solo, dell’Alberti. È possibile infatti mettere quest’ultimo in rapporto con tutti gli ambienti e i personaggi citati, e così fanno Franco e Stefano Borsi . Questi studiosi rilevano come le relazioni tra il papato e l’Alberti, che tra l’altro a Roma aveva preso gli ordini minori per usufruire degli annessi benefici secondo l’uso del tempo, si presentano non ben chiarite e oscillanti in relazione all’alternarsi dei pontefici e alle vicende che si connettono alle correnti e alle personalità prima passate in rassegna . Quello che sappiamo per certo è che l’Alberti, nell’Urbe e nel Latium Vetus, è intensamente partecipe alle attività antiquarie dell’epoca, in modi che hanno fatto scrivere di “una Roma che lui avverte, da rabdomante dottrinatissimo, quale calamita solenne di antichità da rispolverare religiosamente” . Altrettanto certo è che in tale opera gode dell’incoraggiamento e della protezione, oltre che del Bessarione, del cardinale Prospero Colonna, in passato scomunicato da Eugenio IV come ghibellino.
I rapporti col cardinale niceno non sono di facile definizione, ma è un fatto che l’Alberti è inserito nel novero degli appartenenti alla Bessarionis Academia dal canonico veneto Andrea Contrario, residente a Roma sotto Nicolò V . Quanto alla relazione col cardinale romano, essa si configura come un più ampio e intrigante “rapporto sfuggente con un ambiente, come quello dei Colonna, vivamente appassionato delle antiquitates Latii” . I legami dell’architetto fiorentino con la famiglia Colonna non si limitano infatti al solo cardinale, e sono particolarmente interessanti perché tale famiglia vantava una diretta discendenza dalla gens Iulia (si ricordi la dedica di Vitruvio ad Augusto e si dia la giusta considerazione al dato che a casa di Prospero si riuniva una Accademia Vitruviana…) e non era aliena, anche nei suoi membri ecclesiastici, da interessi che la riportano sia alla linea del Bessarione sia a quella del Leto .
A Roma Leon Battista Alberti lavora alla sua Descriptio urbis Romae e “Potrebbe essere legata ai misteriosi rapporti con Prospero Colonna anche la prima fase di indagini sugli antichi acquedotti, in particolare su quello dell’Acqua Vergine, dispersa, a detta del Torelli, ‘per Quirinalis collis cavernas’” . Ma la topografia e l’archeologia romane dell’Alberti, che troveranno ampia eco nel De re aedificatoria, sono attentissime alla sfera del sacro dei primordia Urbis, e il suo interesse si concentra su una “limitata area […] legata alla memoria di riti e siti latini antichissimi (Umbilicus Urbis, Mundus, Volcanal), in rapporto con lo Speculum Dianae e i culti della dea nemorense e aricina”, il che implica “ancora una volta il rapporto con Prospero Colonna, signore feudale dei luoghi legati al culto di Diana (tra cui Genzano) e appassionato cultore delle antiquitates romane e laziali” .
Stefano Borsi sottolinea in particolare l’attenzione albertiana verso il Comitium, indagato attraverso i testi di Varrone e Plutarco, “privilegiando la biografia di Numa” e interessandosi al mistero “pitagorico” del sepolcro del re (De re VI, 4). Inoltre, lo stesso Borsi, sulla base del libro V del De re, si pone l’interrogativo se l’indagine “sul campo” dell’Alberti, volta a verificare “la tradizione arcaica dell’Auguraculum sul Campidoglio” , scenario della inauguratio di Numa in Plutarco e Livio, non abbia pure una possibile lettura colonnese, così osservando: “L’asse visuale del rituale punta dal Campidoglio al Mons Albanus (a grande distanza: ‘longissime’) e la cosa desta una certa curiosità perché potrebbe riproporre una possibile traccia del rapporto con Prospero Colonna, signore e frequentatore di quei luoghi. L’altro Auguraculum dell’antica Roma arcaica e repubblicana sorgeva sul Quirinale, in analogico rapporto con i Comitia del Campo Marzio, e ancora una volta si delineerebbe il problema del cardinal Colonna che sul colle aveva la sua munita residenza romana” .
Ed è proprio Prospero Colonna che nel 1447, anno in cui l’Alberti termina la sua Descriptio urbis Romae, gli affida la missione del recupero delle due navi romane giacenti in fondo al lago di Nemi: il nobile romano è infatti, come si è già evidenziato, il signore di questo luogo, tra i più sacri del Lazio antico, legato com’è al mistero di Diana e del rex Nemorensis. Dette navi erano quelle ivi portate da Caligola, e secondo Renato del Ponte “si deve supporre che vi avvenissero riti, di natura non precisata, legati alla ‘numinosità’ del nemus” . D’altro canto, sempre del Ponte ci avverte: “Che un particolare legame potesse esistere fra la gens Julia ed il nemus Aricinum sembra indicare il fatto che proprio la madre di Ottaviano, Azia, era nativa di Ariccia” .
Le navi di Nemi sono pure all’origine di un perduto trattatello albertiano dal titolo Navis, di cui è fatta parola nel De re aedificatoria, e che i Borsi ritengono adombrato in un passo dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, nel quale “i riferimenti albertiani [...] sono molteplici” . Ovviamente ciò sarebbe ancora più denso di significato se il Francesco Colonna dell’Hypnerotomachia, opera apparsa nel 1499, fosse davvero da identificarsi, come vuole una contestata tesi di Maurizio Calvesi, con l’omonimo signore di Palestrina , la romana Praeneste, sito che col suo palazzo colonnese, ai piedi del quale si distendono i resti dell’antico santuario della Fortuna Primigenia, sarebbe anch’esso richiamato nell’Hypnerotomachia . Ora, proprio a Palestrina, dopo Nemi, troviamo ancora l’Alberti, nel 1454, su sollecitazione di Stefano Colonna, il padre del patrizio romano Francesco...
Le notizie su Leon Battista Alberti sono più rade negli anni in cui si fanno più forti le tensioni tra papato, famiglie baronali, umanesimo civile municipalista ed umanesimo platonizzante. È il periodo delle già accennate congiure, e va data evidenza ai seguenti fatti. Nel 1453 si ha la congiura e la morte di Stefano Porcari , la cui memoria è affidata proprio ad uno scritto dell’Alberti, il De Porcaria coniuratione, che in tal modo fornisce la chiave della vicenda dello sfortunato Romano: “Coepit [...] veterem Urbis gloriam deperditam deplorare et temporum iniurias detestari”. Nel frattempo, nel 1463, sotto il pontificato di Pio II, che fa registrare una frattura tra la Curia e gli umanisti meno ortodossi, muore il protettore del Nostro, il cardinale Colonna, ed egli, “non a caso” , si trova privato della sua rendita di scrittore apostolico presso la Curia.
Con Paolo II l’accennata frattura si radicalizza e nel 1468 avviene l’arresto di Pomponio Leto e degli altri accademici romani. Che all’Alberti non erano affatto sconosciuti; basti citare il fatto che uno dei principali membri dell’Accademia, il Platina (Bartolomeo Sacchi), allorché nel 1459 Ludovico Gonzaga aveva chiamato presso di sé a Mantova l’Alberti come architetto, commissionandogli tra le altre cose un monumento a Virgilio, era stato pure lui convocato per la restaurazione filologica dei testi virgiliani . Le corti padane erano allora tutto un fiorire di fermenti esoterici e pagani, e l’Accademia Romana fu accusata di essere in rapporti cospiratorii con Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e nemico acerrimo del papa: l’interrogatorio sotto tortura nelle carceri pontificie del sopra citato Platina era stato volto, per l’appunto, ad accertare il coinvolgimento malatestiano nella congiura .
Si è ampiamente detto del legame tra Leon Battista Alberti e Prospero Colonna, ma nell’epistolario di Flavio Biondo, come nota Stefano Borsi, si “ricorda la sontuosa festa offerta da Prospero, nei giardini del Quirinale, in onore di Sigismondo Malatesta […], e anche questo è uno snodo molto interessante per ricostruire il milieu romano (e non solo) di Alberti, o per comprendere le sue aperture presso le corti italiane” . Così dal signore di Rimini, intorno al 1450, troviamo anche l’Alberti architetto, cui si deve la decisa impronta alla ristrutturazione esterna della Chiesa di S. Francesco, secondo un progetto finalizzato a trasmutarla nell’incompiuto ma famoso - lo si è ricordato già all’inizio di questo scritto - Tempio Malatestiano. Un edificio sacro voluto per celebrare l’amore del committente per la bella Isotta degli Atti, ma anche destinato ad accogliere le spoglie del sapiente pagano Giorgio Gemisto Pletone, dal dux riminese recuperate a Mistra, in Morea, nel 1465, durante la guerra coi Turchi, combattuta sotto le bandiere veneziane .
Di questo Tempio dai complessi simbolismi esoterici ed astrologici , cui lavorarono, oltre a Leon Battista Alberti, Matteo de’ Pasti e Agostino di Duccio, il papa Pio II (l’umanista Enea Silvio Piccolomini), che nel 1462 aveva scomunicato Sigismondo condannandolo al rogo in effigie , scrisse nei suoi Commentarii: “A Rimini ha eretto un nobile tempio a San Francesco, ma l’ha riempito di opere così pagane che non sembra più un tempio cristiano ma di infedeli adoratori di demoni; in esso ha eretto una splendida tomba alla sua concubina, apponendovi questa iscrizione, alla maniera pagana: ‘Divinae Isottae sacrum’”.
Si è detto del culto solare neoplatonico importato a Roma, segno di un rapporto stretto tra il paganesimo ellenico della Mistra pletoniana e il paganesimo romano dell’Accademia pomponiana ; non va dunque sottovalutato, sempre riguardo al Tempio riminese, che “Era nella mente di Leon Battista Alberti lasciare la massima libertà alla circolazione della luce, che inonda la navata ed è potenziata dal colore dei marmi. […] Nella cappella intitolata a San Sigismondo è conservata una epigrafe che fa riferimento al culto del Sole […]” .
È noto che, anche per l’interessamento del Bessarione, il quale probabilmente aveva capito che era saggio essere cauti e lavorare per la trasformazione interna del cristianesimo secondo la linea platonizzante del Cusano, i congiurati pomponiani vennero poi tutti liberati entro il 1471, col pontificato di Sisto IV, sotto il quale l’Accademia risorse (nel 1478) senza più esplicitare intemperanze pagane . L’Alberti, dal canto suo, visse i propri ultimi anni (quello della morte, il 1472, è pure l’anno in cui scompare Bessarione, mentre il Leto si spegnerà nel 1497) sempre più appartato, ma con insopito l’amore per Roma antica: lo troviamo ad Albano per sopralluoghi archeologici e poi, nel 1471, come guida nell’Urbe della legazione fiorentina presso il neoeletto papa Sisto IV. Tale legazione era composta da Bernardo Rucellai, Donato Acciaiuoli e Lorenzo il Magnifico, ancor giovanissimo e di cui l’architetto-umanista fu per breve tempo precettore.
L’episodio - in cui l’Alberti, malgrado l’età, appare virilmente a cavallo tra le rovine romane - ci è narrato nel suo De urbe Roma dal Rucellai , aristocratico repubblicano che più tardi darà vita a Firenze agli “Orti Oricellari” (latinizzazione del nome dei Rucellai, il cui palazzo fiorentino era stato progettato proprio dall’Alberti), un circolo che nel 1515 sarà rivitalizzato dal nipote Cosimo e frequentato dal Machiavelli, il quale vi ambienterà i dialoghi del suo Dell’arte della guerra, aventi come protagonista il famoso condottiero Fabrizio Colonna. Ma…
“Negli Orti (che si ricollegavano idealmente alle lontane riunioni del Paradiso degli Alberti e a quelle più recenti dell’accademia ficiniana) si parlava di neoplatonismo, di culto degli antichi, di repubblica, di lingua volgare, di libertà d’Italia”.

Sandro Consolato

 

Sull’Alberti e il suo genio multiforme, cfr. C. Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, a cura di P. Claut e con premessa di A. Tenenti, Firenze 1998. L’umanista, cosa poco nota se non agli esperti, a causa della sua opera De cifris (1466), “merita a pieno titolo l’appellativo di ‘Padre della crittografia occidentale’” (D. Kahn, Il ‘De cifris’, classico crittologico, ne “Il Sole-24 Ore”, 18 dic. 1994).
Sull’estetica di Vitruvio e su quella dell’Alberti, cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell’Estetica, tr. it., Torino 1979-1980, rispettivamente il vol. I, pp. 308-322, e il vol. III, pp. 113-135.
A. Calzona, Itinerario di una nuova terra santa, in “Art e Dossier”, n° 93, sett. 1994, pp. 4-10, v. p. 5.
Cfr. ibid., p. 10.
W. Tatarkiewicz, op. cit., vol. III, p. 114.
S. Borsi, Leon Battista Alberti e l’antichità romana, Firenze 2004, p. 101.
Ibid., p. 72.
Ibid., p. 93.
F. e S. Borsi, Leon Battista Alberti, Dossier del n° cit. di “Art e Dossier”, p. 45. La questione è stata poi approfondita dal solo Stefano Borsi nell’ampio saggio già citato.
V. Di Caprio, Roma, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. II: L’età moderna I, Torino 1988, pp. 327-472. Per quanto si dirà, cfr. le pp. 360-453, che sono di notevole interesse.
Ibid., p. 448.
Ibid., p. 403.
Su Pletone, di cui tratterò autonomamente in un prossimo articolo, rimando per ora, in italiano, all’ampio Dossier Platonismo di “Arthos”, n. s., n° 12, a. 2004, e all’indispensabile Sul ritorno di Pletone. Un filosofo a Rimini, atti del ciclo di conferenze tenute a Rimini dal 22 novembre al 20 dicembre 2002, a cura della Biblioteca Civica Gambalunga, dell’Associazione culturale O. L. P. One Labour Party e di Raffaelli Editore, Rimini 2003. Su internet, v. M. Neri, I segreti di Giorgio Gemisto Pletone, http://www.ritosimbolico.net/studi2/studi2_10html.
Il Cusano è detto “ardente seguace della filosofia pitagorica” da Arturo Reghini nel suo saggio Sull’origine del simbolismo muratorio (1923), ora in Id., Paganesimo Pitagorismo Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Furnari (ME) 1986, pp. 49-63, v. p. 55 e sgg.
V. Di Caprio, op. cit., p. 361.
Ibid.
Su questa figura, cfr. E. A. Sorìa, Cola di Rienzo e Mussolini: vite e morti parallele, ne “La Cittadella”, n .s., n° 10, apr.-giu. 2000, pp. 47-51.
V. Di Caprio, op. cit., p. 448.
Il Porcari “disegnava di fare prigionieri il papa e i cardinali, ucciderli occorrendo, impadronirsi del Campidoglio e di Castel Sant’Angelo, assumere nome di tribuno, potestà di signore di Roma, ridurre il papa allo ‘spirituale’” (dalla voce Porcari, Stefano dell’Enciclopedia Italiana).
“È indicativo il fatto che il codice Vaticano greco 2236, che contiene l’Oratio e testi del Pletone e del Bessarione sia scritto da Demetrio Rhallis, allineato sulle posizioni di Gemisto Pletone, presente a Roma nella seconda metà del secolo, fino alla sua morte” (Di Caprio, op. cit., p. 405). Su Demetrio Rhallis (grecizzazione del nome normanno Raoul), cfr. R. del Ponte, Tra i seguaci di Gemisto Pletone. Un aristocratico greco-normanno adoratore del Sole e un “martire pagano” del XV secolo, in “Arthos”, n° 12 cit., pp. 208-209. Per il cripto-paganesimo del Bessarione, cfr., sempre in “Arthos” n° 12, pp. 210-211, In lode di Giorgio Gemisto Pletone. Lettere del cardinale Giuseppe Bessarione in occasione della scomparsa del filosofo e maestro (1452). Nella Lettera ai figli di Gemisto si legge: “Il cardinale Bessarione saluta Demetrio e Andronico, figli del sapiente Gemisto. Ho appreso che il nostro comune padre e maestro ha deposto ogni spoglia terrena e se n’è andato in cielo, al sito di ogni purità, per unirsi al coro della mistica danza di Jacco [id est il Dioniso dei Misteri di Eleusi - ndr] con gli dèi olimpici”.
V. Di Caprio, op. cit., p. 400. Su L’ 'Accademia Romana’, Pomponio Leto e la congiura, v., con questo titolo, il § IV del saggio di E. Garin La letteratura degli umanisti, nella Storia della Letteratura Italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, Milano 1966, vol. III, pp. 142-158. Per le evidenze archeologiche del culto pagano romano entro l’Accademia, cfr. Un episodio di restaurazione del pontificato massimo pagano nel Rinascimento, ne “Il Ghibellino”, n° 4-5-6, dic. 1981, pp. 23-30.
Cfr. sia F. e S. Borsi, art. cit., sia S. Borsi, op. cit.
Cfr. F. e S. Borsi, art. cit., pp. 44-45.
M. Vallora, Alberti. Quanto sei bella Roma, in “tuttoLibri” (supplemento de “La Stampa”), n° 1482, 24 sett. 2005, p. 9.
Cfr. S. Borsi, op. cit., p. 125. In particolare, alle pp. 119-120, Borsi scrive: “A Tuscolo, in un clima di scontato revival ciceroniano, Alberti poteva render visita in villa al Bessarione, tra i cui clientes lo ricorda Andrea Contrario. La testimonianza deve necessariamente precedere il 1471, anno in cui Andrea si trasferisce a Napoli. Il Niceno è commendatario dell’abbazia di Grottaferrata, che secondo Bracciolini e Biondo insisterebbe sui resti della villa tuscolana di Cicerone, dal 1462. È questo un rapporto importante su cui indagare, ben oltre le tracce documentarie che ha lasciato.” Sulla problematicità di uno studio dei pur certi rapporti Bessarione-Alberti, v. sempre S. Borsi, op. cit., pp. 176 sgg.
Ibid., p. 11.
S. Borsi, op. cit., pp. 30-31, a proposito degli interessi colonnesi verso il Latium Vetus, commenta significativamente: “Che poi queste rievocazioni e indagini erudite assumessero implicazioni che andavano oltre il ristretto ambito culturale è un discorso che porterebbe troppo in là. Del resto anche il De antiquitate Latii di Antonio Volsco originerà, certo non per caso, in ambito pomponiano”. Sui Colonna in rapporto all’Alberti e alle correnti sapienziali del tempo, cfr. l’articolata trattazione di questo tema presente in E. Kretzulesco-Quaranta, Les jardins du songe. "Poliphile” et la Mystique de la Renaissance, Roma 1976. Sulla tradizione famigliare dei Colonna quali discendenti della gens Iulia, R. del Ponte, ne Il movimento tradizionalista romano nel Novecento, Scandiano 1987, p. 21, n. 13, scrive: “Risulterà forse sorprendente apprendere come i Colonna possedessero ancora fino ai nostri giorni (è documentato almeno sino al 1927) il ‘feudo’ originale di Giulio Cesare, Boville (Frattocchie d’Albano). Sempre fino al 1927 era visibile nel giardino Colonna al Quirinale l’altare antico dedicato al Vediove della gens Julia […] Tolomeo I Colonna ostentava il titolo di Romanorum consul excellentissimus e Julia stirpe progenitus”. Jacob Burckhardt, nella sua famosa opera La civiltà del Rinascimento in Italia (tr. it., La Spezia 1987, p. 160, n. 5), nelle belle pagine dedicate a Roma come “città delle rovine”, rimanda a Iac. Ab.Aquis, Imago Mundi (Hist. patr. Monum. Script. t. III, col. 1603) “sull’origine della Casa Colonna con accenno al ritrovamento di tesori nascosti”. Sui tesori nascosti e l’esoterismo romano, cfr. S. Consolato, “Gter-ma” tibetani e “cose fatali” romane, ne “La Cittadella”, n. s., n° 6, apr.-giu. 2002, pp. 14-23.

S. Borsi, op. cit., p. 26.

Ibid., p. 99.
Ibid., p. 30. Cfr. anche p. 104.
Ibid., p. 109.
Ibid., p. 110, dove l’ottimo S. Borsi, fino a p. 111, così continua: “Come nei monumenti citati nel libro III ‘apud Comitium’, anche questo accenno all’Arx capitolina e ai suoi antichissimi culti del libro V sembrerebbe il residuo scarnito di un lavoro legato, se non alla diretta committenza, almeno alla cultura maturata attorno alla figura del cardinale-principe Colonna. Il nesso, non solo topografico, fra Auguraculum e Comitium è sottolineato dall’archeologia moderna (F. Coarelli, Il Foro Romano. I. Il Periodo arcaico, Roma 1983 [rist. 1992], p. 107). Del resto, Numa, completate le operazioni rituali dell’inauguratio capitolina, scese a incontrare il popolo proprio nell’area del Comitium. Il sovrano ‘de templo descendit’ (Livio, I, 18, 10), seguendo evidentemente un itinerario riconoscibile: il percorso delle Scalae Gemoniae. Sempre dal libro I di Livio Alberti ottiene informazioni sul ruolo rituale della rocca: l’augure infatti è ‘deductus in arcem’ (I, 18, 6), e dalla rocca vengono prelevate essenze particolari come la verbena rituale: ‘Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit’ (I, 24, 5). Non sono in grado di stabilire se Battista potesse anche tener conto di un accenno di Cicerone (De officiis, III, 16, 66) a una casa da demolire sul Celio perché impediva la corretta visibilità del rito augurale (del Mons Albanus, evidentemente), ma non c’è dubbio che tutte le fonti qui richiamate gli fossero particolarmente familiari. L’Auguraculum, è altrettanto indubbio, è un antichissimo ed enigmatico luogo che ha attirato la sua attenzione”.
R. del Ponte, Dei e miti italici, III ed. riv., Genova 1998, p. 185, n. 125. L’Alberti tentò di recuperare le navi di Caligola con l’ausilio di palombari (i “marangoni”) fatti venire apposta da Genova, i quali però non riportarono in superficie che un pezzo del fasciame. Altri tentativi di recupero avvennero nei secoli seguenti, ma le navi furono finalmente tratte dal lago solo tra il 1928 e il 1932, per esplicito volere di Mussolini. Ospitate dal 1935 nel museo fatto costruire all’uopo nello stesso sito di Nemi, sarebbero ancora visibili se non fossero andate distrutte nell’incendio del 31 maggio 1944, attribuito (ma non v’è certezza della cosa) alle truppe tedesche in ritirata.

R. del Ponte, loc. cit.
F. e S. Borsi, art. cit., p. 45, n. 9. Ma vedi soprattutto S. Borsi, op. cit., pp. 11-14 e 112-114.
Cfr. M. Calvesi, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980; Id., Hypnerotomachia Poliphili. Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di Preneste, in “Storia dell’Arte”, n° 60, pp. 85 ss.; Id., La “pugna d’amore in sogno” di Francesco Colonna romano, Roma 1996. La tesi di Calvesi è decisamente rifiutata dai curatori, M. Ariani e M. Gabriele, dell’ed. adelphiana di F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Milano 1998, v. t. II, p. LXXI e sgg.
Cfr., anche per la restante letteratura, l’op. cit. della Kretzulesco-Quaranta, la cui tesi è addirittura che “n’est donc pas hasardeux d’attribuer à Alberti la promenade archéologique de Poliphile, sous les auspices de l’Accademia Vitruviana du cardinal Colonna” (p. 394). Per la Kretzulesco-Quaranta l’Hypnerotomachia sarebbe un’opera a più mani, tra cui quella dell’Alberti. Quest’ultimo invece risulterebbe essere proprio l’autore dell’enigmatico romanzo secondo L. Lefaivre, Leon Battista Alberti’s Hypnerotomachia Poliphili. Re-Cognizing the Architectural Body in the Early Italian Renaissance, Cambridge (Mass.) – London 1997. Pure questi autori sono contestati da M. Ariani e M. Gabriele: cfr. F. Colonna, op. cit., pp. LXXXIV-LXXXV. R. del Ponte, nel suo Il movimento tradizionalista romano, cit., pp. 20-21, rifacendosi alla tesi calvesiana, si sofferma sull’opera di Francesco Colonna in rapporto alla tradizione romana e pagana del Rinascimento, rapporto che alla fin fine è quello che qui più ci interessa. Sul palazzo dei Colonna e il santuario prenestino della Fortuna Primigenia, in cui è presente anche una componente che rinvia al mondo egizio, cfr. P. Lanzara, Questioni di Fortuna, in “Bell’Italia”, n° 90, ott. 1993, pp. 84-99.
È singolare che per quasi tutto il 1452, anno precedente la congiura, il Porcari, a Bologna in “libertà vigilata”, abbia frequentato giornalmente il cardinale Bessarione, che, come rappresentante di Niccolò V, doveva tenerlo sotto controllo (cfr. la voce Porcari, Stefano, del Grande Dizionario Enciclopedico Utet).
F.e S. Borsi, art. cit., p. 45.
Cfr. A.Calzona, art. cit., p. 8. Cristoforo Landino nelle sue Disputationes Camaldulenses (1475) ci presenta un Alberti esegeta virgiliano ospite a Figline Valdarno di Marsilio Ficino, in compagnia di Lorenzo e Giuliano de’ Medici e dello stesso Landino, autore di un Comento a Dante. Per la Kretzulesko-Quaranta, op. cit., p. 402, “Dante avait choisi Virgile comme guide jusqu’au seuil de l’univers divin; il était donc essentiel que le commentateur de Virgile et celui de Dante fussent ensemble présents à cette riunion, pendant laquelle les tendances des deux Académies, la Romaine et la Florentine, trouvèrent leurs points de convergence”. Dal canto suo S. Borsi, in op. cit., p. 177, non solo segnala che il Bessarione “era in rapporti epistolari col Ficino, che a sua volta, nel commentario al Timeo, ha parole di elogio nei confronti di Alberti”, ma osserva altresì che: “Per gli intellettuali fiorentini non doveva essere troppo difficile vedere in Leon Battista un platonico […]. C’è poi un altro punto di contatto tra Battista e Ficino: l’interesse comune per il pitagorismo. Non è del tutto casuale che negli anni delle Sentenze [pitagoriche – ndr] albertiane Marsilio abbia latinizzato l’Aureum Pythagoreorum Carmen”.

Narrato dal Platina stesso nel suo Liber de vita Christi ac omnium pontificum, l’interrogatorio, in cui egli peraltro ammise di aver avuto relazione con Sigismondo, ma per soli fini culturali, così è rievocato da Ezra Pound, ammiratore di Malatesta e di Pletone, nei Cantos (XI): “E Platina dopo disse, / quando lo misero dentro, / Il Platina e l’Accademia Romana, / Per aver nelle catacombe inneggiato a Giove, / Sì, io lo vidi, quand’era quaggiù / Pronto a sgozzare Paolo ‘Formosus’ / E vogliono sapere di che noi parlavamo? / ‘de litteris et de armis, praestantibusque ingeniis, / Dei tempi antichi e nostri; libri, armi, / E uomini di raro ingegno, / Dei tempi antichi e nostri, insomma / Di quel che si parla fra uomini sensati.” (dalla tr. it. di M. de Rachewiltz, E. Pound, I Cantos, Milano 1996, pp. 99-101)
S. Borsi, op. cit., p. 30.
Sul rapporto Malatesta-Pletone, cfr. S. Ronchey, Giorgio Gemisto Pletone e i Malatesta, in Sul ritorno di Pletone, cit., pp. 11-24; M. Bertozzi, Giorgio Gemisto Pletone e il mito del paganesimo antico: dal Concilio di Ferrara al Tempio malatestiano di Rimini, ivi, pp. 81-104. Di Sigismondo Pandolfo Malatesta va ricordato il contributo al ri-nascimento non solo delle virtù sapienziali d’Italia ma anche delle virtù militari. Suo stretto consigliere, e come Pletone poi accolto anche lui da morto nelle arche esterne del Tempio, fu il riminese Roberto Valturio, autore del trattato De re militari che, scritto per il suo Signore, ebbe poi larga fortuna in tutta Europa. In quest’opera, che spazia dall’ingegneria militare all’artiglieria, fa peraltro capolino la partecipazione dello stesso Valturio alla sapienza segreta chiave dell’edificazione del Tempio malatestiano, accennando egli (De re militari XII, 13) “ai ‘nascosti penetrali della filosofia’ da cui il principe ‘acutissimo’ avrebbe tratto i princìpi per la sua impresa” (M. Centanni, Misteri pagani nel tempio malatestiano, in Sul ritorno di Pletone, cit., p. 51)
Cfr. utilmente il saggio cit. di M. Centanni, pp. 47-80. Su internet v. M. Neri, Simbolo e simboli nel tempio malatestiano, http://www.ritosimbolico.net/studi1/studi1_02.html.
Matteo de’ Pasti è anche l’autore della medaglia raffigurante l’emblema (l’occhio alato) col motto (QVID TVM) dell’Alberti. Su di essa, cfr. E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, tr. it., nuova ed. riv., Milano 1985, p. 283 e sgg.
Può interessare il fatto che Pio II chiamò il cardinale Niccolò Cusano a istruire il processo in contumacia (v. M. Centanni, saggio cit., p. 52, n. 12).
Tale rapporto è stato interpretato nel senso di una filiazione dell’Italia dalla Grecia da F. Masai, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris 1956, pp. 347-348, il che può essere accettato solo con riferimento agli elementi platonico-procliano-giulianei delle confraternite italiane, in ambito accademico-romano facendosi invece valere la centralità della religio nazionale. Sui limiti da dare all’influenza pletoniana in Italia, cfr. G. D’Uva, La Tradizione Italica, in “Politica Romana” n° 5/1998-1999, pp. 106-125, v. p. 125.
M. Bona, Lievitante atmosfera del Malatestiano, ne “Il Sole-24 Ore”, 13 sett. 1998.
Ma sulla celebrazione pagana del 21 aprile presso la stessa Accademia ancora negli anni Ottanta del Quattrocento, cfr. Il “Carmen in Romae urbis genethliacon” di Domenico Palladio Sorano in “Politica Romana” n° 6/2000-2004, pp. 23-30.
Sulla ripetuta presenza, accertata o plausibile, dell’Alberti ad Albano, Nemi, Anzio e Nettuno negli anni Sessanta del Quattrocento, e in occasione delle “gite turistiche” di personaggi come Francesco Gonzaga o Pio II, cfr. S. Borsi, op. cit., p. 114 e sgg.
Sui rapporti dell’Alberti con l’ambiente fiorentino e i problemi impliciti nel racconto di Rucellai, cfr. S. Borsi, op. cit., parte II: Tra Roma e Firenze: antico e non solo.
A.Tartaro et Alii (a cura di), Letteratura Italiana Calderini, Bologna 1977, p. V/58. Il Paradiso degli Alberti era la villa fiorentina della famiglia del Nostro. Così s’intitola anche un romanzo quattrocentesco del notaio pratese Giovanni Gherardi.

 

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