Risorse e Genius Loci

Enrico Franceschetti

Risorse-e-Genius-Loci

Buio.

No, non il buio consueto, quello intorno (e talvolta dentro) al quale c’è la luce.

No. Un buio-assenza, un buio vuoto.

In questo incommensurabile nulla, un inafferrabile istante.

Genesi 1,1-2,4 – 1,1 Nel principio DIO creò i cieli e la terra. 2 La terra era informe e vuota e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso; e lo Spirito di DIO aleggiava sulla superficie delle acque. 3 Poi DIO disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4 E DIO vide che la luce era buona; e DIO separò la luce dalle tenebre. 5 E DIO chiamò la luce “giorno” e chiamò le tenebre “notte”. Così fu sera, poi fu mattina: il primo giorno.

Cronologia del big bang. Fonte: wikipedia.

L’universo inizialmente era omogeneo, isotropo, con una densità energetica estremamente elevata. All’incirca 1037 secondi dopo l’istante iniziale, una transizione di fase causò un’inflazione cosmica, durante la quale l’universo aumentò le sue dimensioni esponenzialmente.

Qualche minuto dopo l’istante iniziale, i neutroni si combinarono con i protoni, formando i primi nuclei di deuterio e di elio in un processo chiamato nucleosintesi. La maggior parte dei protoni non si combinò e rimase sotto forma di nuclei di idrogeno. Quando l’universo si raffreddò, il contributo della densità energetica della massa a riposo della materia arrivò a dominare gravitazionalmente il contributo della densità di energia associata alla radiazione del fotone. Dopo circa 379.000 anni, gli elettroni e i vari nuclei si combinarono formando gli atomi (soprattutto idrogeno); a partire da questo istante, la radiazione si disaccoppiò dalla materia e continuò a vagare libera nello spazio. Questa radiazione fossile, che ancora oggi è visibile, è conosciuta come radiazione cosmica di fondo.

In un periodo di tempo molto lungo, le regioni leggermente più dense rispetto alla distribuzione uniforme di materia attrassero gravitazionalmente la materia circostante e crebbero, aumentando la loro densità, formando nubi di gas, stelle, galassie e le altre strutture astronomiche osservabili oggi.

Il buio non era più assenza, era buio-luce, era energia, alta o bassa, ma pur sempre energia.

Che sia una narrazione mitico-misterica, o che sia il risultato di decenni di studi di tipo scientifico, l’assonanza fra le due prospettazioni del momento della nascita dell’universo così come lo percepiamo è indubbia.

Se la condizione originaria era quella dell’assenza di “energia” (lasciamo questo termine non definito, in modo che in ognuno possa assumere spontaneamente la più naturale valenza intuitiva, piuttosto che cognitiva) dalla sua “improvvisa” insufflazione nel sistema è derivata la “creazione”, da cui noi stessi dipendiamo in quanto entità capaci di autocoscienza.

Dall’energia e dal modificarsi dei suoi stati dipende tutto il sistema di cui facciamo parte.

Dal cambiamento di stato dell’energia dipende ogni “lavoro”, ogni azione.

Da un livello di energia alto si tende ad uno basso per quindi raggiungere il c.d. equilibrio “mortale” (morte termica), ma l’universo, e ogni sistema vivente, non può morire di morte termica in quanto, a fronte dell’entropia che vi opera, vi è un processo opposto sintropico di reintegrazione dell’ordine. Dall’oscillazione fra yin e yang scaturisce il divenire sensibile.

Perfino la materia è energia. La materia è tutto ciò che ha massa e dimensioni ed è energia in forma di riposo. Materia ed energia sono quindi aspetti diversi di una stessa entità fisica.

Di queste realtà abbiamo, nel corso degli ultimi secoli, acquisito una consapevolezza scientifica ma, stranamente, ne abbiamo perso l’esperienza interiore, quasi che l’una non possa coesistere con l’altra.

Renè Guenon nella sua “Crisi del Mondo Moderno” attribuisce ad una vera e propria deviazione culturale lo smarrimento del senso metafisico (inteso nel senso etimologico del termine “oltre il fisico, il materiale”) dell’uomo occidentale: “…É cosi che prese nascita quel che noi possiamo chiamare Ia filosofia «profana», cioè una pretesa sapienza puramente umana, quindi d’ordine semplicemente razionale, prendente il posto della vera sapienza tradizionale, superrazionale e «non-umana». … È il punto al quale, nei tempi moderni, doveva condurre il movimento iniziato dai Greci; le tendenze già affermate da questi poterono allora esser portate fino alle loro estreme conseguenze e l’importanza eccessiva accordata dai Greci al pensiero razionale doveva accentuarsi fino a giungere al «razionalismo», attitudine specificamente moderna che consiste non più nel solo ignorare tutto ciò che è d’ordine superrazionale, ma nel negarlo senz’altro”.

A ciò mi sento di aggiungere che la scelta della “ragione” quale unico sentiero percorribile per la nostra esperienza cognitiva ci ha anche assuefatti a ritenere che la “ragione” dovesse essere sempre e comunque unica ed univoca, laddove ogni sapere tradizionale ci insegna che solo dalla continua alternanza fra “ragione e torto”, ovverosia fra bianco e nero, è la vita.

Il viaggio, la “cerca del Santo Graal” del Maestro Architetto non è proprio teso al ritrovamento della “radice dell’Armonia”, cioè di quella pianta allegorica che, intrecciando i suoi fittoni bianchi e neri, da origine al suo rigoglioso fogliame ed ai suoi fertili frutti?

Da sempre ritengo che quando Pitagora giaceva, nel corso delle sue lunghe notti sdraiato sulle calde sabbie egiziane, osservando il cielo ed il suo moto alla ricerca di una legge universale unificatrice, proprio a questa percezione si ispirasse.

La percezione, cioè, dell’esistenza di un flusso comune, dalle cui variazioni dipendessero le percezioni umane dell’universo, doveva essere ben chiara a Pitagora, che d’altro canto pare fosse già stato iniziato alla Scienza dei Misteri.

In effetti, tali intuizioni erano, nella più remota antichità, proprie anche degli uomini comuni, perfino dei più semplici, e spesso legate in modo specifico ai luoghi in cui essi trascorrevano l’intera esistenza, alle manifestazioni naturali da cui traevano risorse e sostegno.

La tradizione più antica ritiene che le energie sottili, o energie “di rimbalzo”, fossero comunemente percepite dagli esseri umani, anche grazie al contatto naturale “piede-terra”, potente tramite percettivo di cui siamo dotati.

Quelle energie influivano sullo stato dell’uomo, così come su ogni altro elemento afferente al sistema naturale presente, in una intensa correlazione fra elementi biologici e minerali, fra formazioni viventi e non, che ne rendevano uniche ed irripetibili le modulazioni.

Taluni, druidi o sciamani, erano a tal punto consapevoli di tali flussi da poterli catalizzare ed indirizzare, tanto da operare la “magia” interiore ed esteriore.

Gli uomini di quelle lontane epoche vivevano letteralmente “aggrappati” ai luoghi. Da essi e dal loro complessivo ecosistema traevano ogni elemento utile non solo alla mera sopravvivenza come individui e come “razza”, ma anche alla loro connotazione sociale e culturale. Letteralmente ogni cosa derivava dal luogo e dal suo sistema.

Anzi, di più: ogni luogo, ogni fonte, ogni anfratto, godeva della sua identità spirituale. Secondo Servio, “nullus locus sine Genio (nessun luogo è senza un Genio)” (Commento all’Eneide, 5, 95). Il Genius Loci era il nume, era l’impronta energetica soprannaturale, unica ed indistinguibile, che connotava il posto. Quella energia era un Dio, magari secondario e minore, o un Essere dotato di individualità precipua e/o appartenente ad un genere particolare. Penso alle Ninfe, legate a tutte le acque, e successivamente alle Fate, concettualmente connesse al “fato”, che governavano boschi e territori incontaminati, accogliendo e difendendo i viaggiatori, talvolta, o scacciando i perturbatori, talaltra. E, dopo l’avvento del cristianesimo, alla sopravvivenza del Piccolo Popolo, o degli Elfi… tutti accomunati dalla precipuità energetica dei luoghi e tutti gradatamente ritiratisi al sopravvenire dell’avvelenamento dei territori originariamente incontaminati in direzione delle Terre Imperiture di Arda, a Valinor, dove si trova Lórien, il giardino edenico del Vala Irmo (J.R.R. Tolkien).

D’altro canto, non era proprio Platone, nel Timeo (dialogo cosmologico), a sostenere che: «Questo mondo è un essere dotato danima e di intelligenza, generato dalla provvidenza di Dio» (30 B-C) (Pachamama: significa in lingua quechua Madre terra. Si tratta di una divinità venerata dagli Inca e da altri popoli abitanti l’altipiano andino, quali gli Aymara e i Quechua. È la dea della terra, dell’agricoltura e della fertilità.)

Ancora, nell’Epinomide (dialogo sulle scienze numeriche), Platone amplia l’orizzonte: «I corpi celesti sono esseri viventi, e anzi si può dire che nel loro insieme costituiscano il genere divino degli astri, a cui è toccato il corpo più bello e lanima più felice e perfetta» (981 E – 982 A). Il grande pensatore attribuiva evidentemente un’anima anche a creature diverse dall’uomo e pur sempre diverse dall’insieme indistinto del tutto.

Plotino, pensatore nato a Licopodi, in Egitto, tra il 203 ed il 204 d.C., e morto in Campania tra 269 ed il 270, riteneva anch’egli che esistesse un’anima mundi – quale seconda emanazione, dopo l’intelletto (nous), di Dio-Uno – ma era anche convinto che le anime singole fossero parti dell’anima del mondo (L’Anima del mondo, meglio nota in latino come Anima Mundi, è un termine filosofico usato dai platonici per indicare la vitalità della natura nella sua totalità, assimilata a un unico organismo vivente. Rappresenta il principio unificante da cui prendono forma i singoli organismi, i quali, pur articolandosi e differenziandosi ognuno secondo le proprie specificità individuali, risultano tuttavia legati tra loro da una tale comune Anima universale. e che anzi lanima del mondo fosse reperibile in ogni luogo. Fonte: Wikipedia).

Per noi, oggi, comprendere fino in fondo il senso di una tale integrazione dinamica fra luoghi, risorse e comunità umana è difficile. non solo per la sciagurata scelta razionalistica di cui s’è già fatto cenno, ma anche perché lo sviluppo tecnologico, ampliando man mano il nostro potere materiale, ci ha sempre più svincolato dalla dipendenza e quindi dalla interazione con i luoghi, privandoci al contempo della capacità di coglierne le peculiarità.

In qualche modo, man mano che abbiamo ampliato il nostro orizzonte “operativo”, abbiamo perso il dettaglio. La globalizzazione distribuisce non solo prodotti, ma pensieri e sentire uguali, indipendentemente dalle aree nelle quali cui essi trovano origine.

L’uomo si è separato dal proprio ambiente di nascita, ha abbandonato la terra, creando una nuova superficie concettuale da abitare, che non coincide più con la litosfera ma che si trova più in alto, senza toccarla.

Non ha profondità ma solo estensione orizzontale. Non è radicata con il pianeta, ma lo ricopre senza soluzione di continuità. Non ha interazione con esso, se non per il prelievo dei materiali necessari e per la dispersione degli scarti.

La connessione ombelicale si è spezzata, non è più percepita, e con essa è mancata totalmente la sensazione dell’energia, sia dell’organico che dell’inorganico.

La necessità di procurare risorse che assicurino l’alimentazione dell”animale uomo, ha generato una impronta ecologica sempre più squilibrata. Al momento, in base ai dati riscontrabili con facilità su Wikipedia, da alcuni studi effettuati su scala mondiale e su alcuni paesi emerge che l’impronta mondiale è maggiore della capacità bioproduttiva complessiva. Secondo Mathis Wackernagel, nel 1961 l’umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera, ma nel 1999 era arrivata al 120%. Ciò significa che stiamo consumando le risorse più velocemente di quanto potremmo, cioè che stiamo intaccando il capitale naturale disponibile e che nel futuro potremo disporre di meno materie prime per i nostri consumi.

Ciò comporta innumerevoli conseguenze di ordine materiale, che finiscono con l’influire pesantemente sul piano culturale, sociale e spirituale.

Basti pensare agli imponenti flussi migratori innescatisi a seguito dello squilibrio dello sfruttamento, e della disponibilità, fra il sud ed il nord del mondo occidentale, ed a tutto quello che ciò comporta in termini non solo economici e geopolitici ma soprattutto di contrasti sociali e religiosi.

Oppure al progressivo, e sempre più irreparabile, avvelenamento dei terreni agricoli, delle fonti di acqua potabile, derivanti dalla necessità di smaltire sostanze di sintesi, del tutto estranee al ciclo naturale e come tali letteralmente “insostenibili” dal punto di vista ecologico.

O ancora al parallelo esaurirsi delle materie prime, fra le quali perfino l’acqua dalle falde, che produce desertificazione irreversibile di intere contrade una volta fertilissime.

L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, sia in dimensione che in estensione. Potrebbe anche estendersi all’immateriale, sol che si consideri come, a mero titolo di esempio, la percezione della morte e del suo dolore sia sfuggita ai moderni occidentali, che macellano milioni di esseri viventi in modo totalmente dimentico di ciò che questo comporta.

Come già avemmo modo di considerare, nella Tavola sapientemente tracciata dal M:.A:. Roberto Vismara, il consumo smodato di carne è dimentico delle urla di dolore o dagli sguardi terrorizzati degli animali massacrati. Solo così riusciamo a disporre con tanta irresponsabile indifferenza di questa risorsa, su cui edifichiamo commerci, ricchezze e spesso anche abusi.

D’altro canto, lo stesso facciamo sfruttando coltivazioni intensive e manodopera sottopagata e tenuta in condizioni prive delle più elementari garanzie umanitarie.

Siamo lontani dai loro occhi. Troppo lontani. Siamo ormai lontani da noi stessi.

L’uomo si è fatto insostenibile, non solo per l’universo di cui è parte dipendente, ma perfino per la propria stessa sopravvivenza, troppo inconsapevolmente astratta per mantenersi funzionale al sistema.

Certo non dovunque è così, non per tutti, è così. Sovviene alla mente il grande movimento di cultura della terra e delle risorse alimentari, che prende origini proprio dal nostro territorio piemontese. Mi riferisco a “Terra Madre”, soggetto-rete nato da una costola di “Slow Food” che ha organizzato, dal 2004 diverse kermesse internazionali per “mettere in pratica ciò che è stato definito «glocalismo»: un insieme di azioni su scala locale con l’obiettivo di avere importanti ripercussioni a livello globale” attraverso il recupero del rapporto con i luoghi e con la loro natura. Per “riconciliare il genere umano con la Terra”.

Eppure, nonostante le voci che, come Terra Madre, si alzano in vari punti del globo, la sensazione generale è che la corsa verso il Kali Yuga (il Kaliyuga, lett. “era del punteggio perdente”, corrispondente nei miti greci all’età del ferro, è l’ultimo dei quattro yuga; si tratta di un’era oscura, caratterizzata da numerosi conflitti e da una diffusa ignoranza spirituale. Essa cominciò con la morte fisica di Krishna (avvenuta, secondo il Surya Siddhanta, il trattato astronomico che costituisce la base del calendario indù, alla mezzanotte del 18 febbraio 3102 a.C.) e durerà 432.000 anni, concludendosi nel 428.899 d.C.: Kalki, decimo e ultimo avatara di Viṣṇu, apparirà in quell’anno, a cavallo di un destriero bianco e con una spada fiammeggiante con cui dissiperà la malvagità. Il Kali Yuga è l’ultimo dei quattro Yuga, e alla sua fine il mondo ricomincerà con un nuovo Satya Yuga (o Età dell’oro); questo implica la fine del mondo così come lo conosciamo (più di ciò che accadde alla fine degli altri Yuga, perché la Storia cadrà nell’oblio) e il ritorno della Terra ad un paradiso terrestre) sia di fatto inarrestabile.

Scrive Guenon:

Sembrerebbe invero che un arresto a metà strada non sia più possibile e che, secondo tutte le indicazioni fornite dalle dottrine tradizionali, si sia veramente entrati nella fase finale del kali-yoga, nel periodo più oscuro di questa «età oscura», in uno stato di dissoluzione da cui non è possibile uscire se non con un brusco rivolgimento, poiché una semplice rettificazione non è più sufficiente e un totale rinnovamento appare necessario. Il disordine e la confusione, dal punto di vista superiore, che qui vogliamo assumere, regnano in tutti i domini, e sono giunti ad un grado che sorpassa di molto quanto si era già visto in precedenza…

Sebbene tale deduzione contrasti violentemente con lo spirito “di sopravvivenza” che connota ogni essere umano, e me per primo, il mio sentire più profondo, se ascoltato, avverte la verità che in essa è contenuta.

Da ciò deriva però un’altra domanda, che lo stesso Guènon in verità ha posto ben prima di me: quale è la ragion d’essere di un periodo, come quello che viviamo?

In termini di conoscenza, non dovremmo dolerci del “cupio dissolvi” che questo ciclo manifesta, posto che ad esso non potrà che succedere un’era migliore. Tale ultima certezza non deriva da un atto di fede, o solo da una intuizione avvertita oltre la ragione; tutto questo è stato previsto dalla dottrina degli antichi, e molteplici sono le fonti che ne trattano, dispersi sotto mille latitudini e nel corso di ere da noi anche molto distanti. Da ciò deriva la semplice constatazione della fondatezza dello schema generale.

Ma su scala più ridotta, addirittura personale, la risposta alla domanda posta può, definendo un senso, alleggerire lo sgomento che inevitabilmente l’animo avverte di fronte all’incombente oscurità.

Probabilmente allora dovremmo ritenere che, affinché si possa rinascere, occorre non solo morire ma consapevolizzare le ragioni della morte.

Se tutte le peggiori atrocità non vengono compiute, e non vengono riconosciute, non saranno evitate nell’epoca futura.

D’altronde non esiste alcun processo alchemico che possa giungere al successo senza passare per l’indispensabile e profonda “opera al nero”; anche questo ripete la dottrina tradizionale.

Pertanto il nostro compito, come individui e come Maestri Architetti, può forse essere quello di fungere da ponte, portando con noi la fiaccola della conoscenza (residua?) affinché non venga persa nel passaggio fra le ere, tornando a splendere limpida come un faro dopo “la notte oscura dell’anima”.

E. F.

(Loggia Regionale Saturnia)