IL SIMBOLO DELLA CROCE

Nell’accezione più generale il simbolo è la raffigurazione in termini di astrazione di un’entità immateriale. Esso non va tuttavia confuso con il segno, il secondo essendo invece la mera rappresentazione espressiva, per lo più grafica, di un’idea, mentre il primo vive in una dimensione sua propria, squisitamente concettuale.Per delineare esattamente i confini del simbolo, riteniamo occorra prendere le mossa dal segreto iniziatico. Sappiamo già che con questo termine si designa il risultato dello sforzo, del travaglio interiore, che è compiuto dall’uomo nel tentativo di ricercare la Verità. L’aggettivo “iniziatico”, lo ricordiamo, viene dal latini in-ire, che significa “avviarsi”, “mettersi in cammino”.

Lungo questo cammino l’uomo intuisce che la Verità è l’Uno che dischiude il molteplice ed allora, spinto dal bisogno di comunicare ai suoi simili la propria intuizione, lascia loro un messaggio che non può non essere simbolico, perché percependo l’Ineffabile le parole non possono mai essere adeguate.

Nelle scritture della Tradizione, per esempio la Bhagavad Gîtâ o il Vangelo di Giovanni, è chiaramente detto che il logos è nel mondo e il mondo in lui; insieme costituiscono un’unica entità che si articola secondo forme e livelli differenti. Il simbolo è appunto lo strumento che, mettendo in comunicazione i vari gradi dell’Essere – sun-baléin significa “collegare” – consente all’uomo di ritrovare la Parola, cioè di comunicare con l’Infinito, conseguendo l’Identità Suprema.

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Il simbolo che, a nostro giudizio, meglio di qualsiasi altro svela il mistero della divinità come diversità nell’unità, è la croce. La quale, vuoi per tradizione, vuoi per pigrizia mentale, appare indissolubilmente legata alla religione cristiana. La croce è invece un simbolo antichissimo; ne sono stati rinvenuti reperti preistorici, addirittura dell’età neolitica, per non parlare poi della croce ansatica egiziana, della swastika tibetana o della croce atzeca di Tlaloc, tutte di epoca anteriore a quella cristiana. La circostanza che questo simbolo sia presente in epoche e contesti sociali diversi, assumendo per contro significati analoghi, se non addirittura identici fra loro, suscita in noi emozione profonda e ci induce a non identificare la croce esclusivamente con il cristianesimo: i limiti di una religione particolare, per quanta dignità essa abbia, appaiono certamente angusti a cospetto dell’Infinito.

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Il significato più comune attribuito alla croce è la raffigurazione del sole. Presso i popoli antichi, il sole era sovente divinizzato, siccome associato all’idea di vita. La croce ansatica è anzi così detta perché è chiaro il richiamo al geroglifico nkh, vita. In alcuni disegni tibetani le braccia della swastika appaiono anzi sovrapposte in guisa da simboleggiare la copula tra l’uomo e la donna, quindi il momento della creazione della vita (fig. 1).

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La raffigurazione stilizzata di due persone di sesso diverso che si uniscono intimamente per dare vita a una nuova creatura ci induce a riflettere su un altro significato della croce, e cioè la risoluzione dialettica degli opposti (maschio/femmina; vita/morte; razionalità/intuizione; ecc.). Tali opposti sono le due braccia della croce che, venendo assorbite in unico contesto, cioè la croce stessa, appaiono non più antitetici, bensì complementari fra loro.

Ne deduciamo che ogni fenomeno di cui constatiamo l’esistenza è la manifestazione sensibile di una realtà non percepibile attraverso i sensi: esistere, nel suo significato etimologico (dal latino ex-stare), indica un essere dipendente da un Principio diverso dal quale è emanato. Ne consegue che tutti i fenomeni che i nostri sensi percepiscono diversi, se non addirittura contrastanti fra loro, sono solo apparentemente tali, derivando in effetti da un medesimo Principio, al quale sono destinati a ricongiungersi, ricomponendosi armoniosamente fra loro.

Citiamo dal Canto VI della Bhagavad Gîtâ:

Per colui che mi vede ovunque e tutte le cose vede in Me, io non sono perduto né egli è per Me perduto.

Quell’Yogi che mi adora (scorgendo la mia presenza) in ogni creatura e riconoscendo l’Unità in tutte le cose, vive in Me qualunque sia la maniera del viver suo.

Le due braccia della croce possono inoltre essere considerate come quattro semirette che hanno origine dal medesimo punto, ottenendosi così una divisione del piano in quattro parti uguali.

A nessun iniziato può sfuggire il pregnante significato del numero quattro. Tanti erano, secondo i Presocratici, gli elementi che componevano il mondo: terra, aria, acqua e fuoco; altrettante le parti che si riteneva componessero l’uomo: corpo, mente, anima e spirito. A ciascuna di esse corrispondeva, rispettivamente, ognuno dei quattro elementi suddetti.

Ancora, quattro sono i viaggi dell’iniziando, il primo svolgendosi fuori dal Tempio, nel Gabinetto di Riflessione, gli altri tre all’interno, ove il profano è purificato attraverso le prove simboliche dell’acqua, dell’aria e del fuoco.

Quattro elementi, dunque, aventi ciascuno caratteristiche proprie, l’uno distinto dagli altri, eppure tutti armoniosamente coordinati fra loro. intuirono allora i pitagorici l’esistenza di un quinto fattore, che chiamarono olkós, sostegno, il quale, in virtù della sua funzione armonizzatrice, era considerato il principio rettore dell’universo intero. Da lui dipendeva il moto degli astri, il susseguirsi ordinato e costante delle stagioni, lo sviluppo delle quattro età dell’uomo, in una parola, il ciclo perenne della vita. Questo concetto è simbolizzato dalla circonferenza, figura geometrica in cui non è dato distinguere il principio dalla fine. Ricordiamo, a tal proposito, che l’iconografia cristiano-orientale ci tramanda l’immagine di Gesù significativamente affiancata dall’alfa e dall’omega, cioè dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto greco.

Di questa circonferenza, i quattro elementi i raggi; il centro, che è anche il punto centrale della croce, è il punto dal quale i raggi si dipartono ma al quale peraltro convergono, simbolo quindi di quel Principio da cui tutto trae origine e cui tutto ritorna (fig. 2).

Compito dell’uomo è uscire dal circolo e raggiungere il centro, dove, in comunione con il Principio, vivrà con saggezza la sua esperienza terrena, lontano dal turbinio delle passioni.

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Per fare ciò, l’uomo deve far fruttare i ‘talenti’ concessigli. È peraltro evidente che i risultati saranno diversi da individuo ad individuo, dovendosi tenere conto di svariati condizionamenti, sia interni che esterni.

Considerando quindi il punto geometrico di intersezione delle due rette come simbolo delle potenzialità umane, avremo segmenti di lunghezza differente, simbolo di differenti tappe raggiunte (fig. 3).

Tuttavia, in tutti e tre i casi considerati, la figura è la stessa, rectius la medesima croce è raffigurata in tre modi diversi, il che ci induce a svolgere un’ulteriore considerazione: la molteplicità delle forme è ordinata secondo un principio gerarchico, il quale, se da un lato non intacca la sostanziale uguaglianza della struttura, dall’altro ne accentua la diversità della funzione.

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Virtù e Conoscenza sono gli strumenti che permettono all’uomo di conseguire la meta finale. Tali strumenti, a mio avviso, sono simboleggiati dalle due braccia della croce, rispettivamente verticale e orizzontale, o, se preferiamo attingere all’esoterismo islamico, “ampiezza” ed “esaltazione”.

Tuttavia la croce contiene anche un ammonimento: nella ricerca della perfezione, virtù e conoscenza devono stare in equilibrio fra loro, pena la disarmonia della figura e della coscienza umana. Legge cosmica è quella dell’armonia, punto di raccordo fra l’Essere e il Divenire, fra l’Ente immutabile, natura naturans, che l’uomo conosce per intuizione, e la realtà fenomenica, natura naturata, che viene invece percepita attraverso i sensi. E l’armonia visibile rimanda, secondo Epicarmo, ad un’altra Armonia, non manifesta ma non perciò meno reale.

“Armonie afanés, du bist Gott”, armonia segreta tu sei dio: questo fu il lapidario commento di Diels ai versi del poeta greco.

Pertanto, se da un lato è biasimevole creare una religione della ragione (fig. 4)

dall’altro è altrettanto errato rivolgersi esclusivamente al misticismo, immemori e indifferenti ai problemi terreni (fig. 5).

Est modus in rebus,

sunt certi denique fines

quos ultra citraque nequit consistere rectum.

C’è una misura delle cose, vi sono certi limiti, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto.

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Per raggiungere la sua meta, l’uomo deve abbandonare le passioni, vincere i pregiudizi, spogliarsi insomma dei ‘metalli’ che, legandolo alla bruta materialità, gli impediscono di ascendere a mete spirituali più alte. Egli deve insomma ‘morire’, perché solo così potrà rinascere ad una vita diversa e migliore.

Rammentiamo che la croce era il geroglifico alchemico del crogiolo, in tardo latino detto crucibulum, parola la cui radice, secondo alcuni, è crux, croce. Il crogiolo, per l’appunto, è lo strumento dove la materia prima, lavorata col fuoco, trova la morte per risuscitare trasformata.

La morte, iniziaticamente intesa, segna dunque il momento di abbandono del materiale, dell’effimero, momento essenziale per il conseguimento della Vita. Questo processo è ben leggibile nella croce, immaginandone le braccia in quattro differenti posizioni, corrispondenti ai quattro punti cardinali, fissate dal movimento di un raggio della circonferenza (fig. 6).

Il nord rappresenta il punto di partenza, la vita in senso biologico, ma vorrei dire animale, alla quale appartiene l’uomo superficiale, fatuamente pieno di sé.

L’ovest, fissato dal raggio in posizione orizzontale, corrisponde al momento dell’umiliazione, della caduta, ma anche della morte. Accade sovente che l’uomo, in corsa verso il successo, inciampi e cada. Si sentirà allora umiliato, mortificato, quello che comunemente si dice un “fallito” e crederà di morire, se addirittura non penserà alla morte come via d’uscita da una situazione che gli appare insostenibile. Invito i Fratelli a riflettere sull’assonanza fra occasus, tramonto, e occidere, morire, essere uccisi; nella lingua italiana valga lo stesso fra “caduta” e “cadavere”: l’associazione fra le due idee è stata magistralmente messa in luce da Dante, nel celeberrimo verso E caddi come corpo morto cade.

A questo punto, l’uomo è solo con se stesso, rivede il passato, fa il punto sull’esistenza fino ad allora condotta ed entra in crisi, cioè si giudica – il verbo greco crino significa appunto “giudicare” – meditando su ciò che è stato e non vuole più essere. Questa fase di riflessione è simboleggiata dalla posizione sud, che indica la ‘discesa agli Inferi’, ovvero, per dirla con il Guénon, la ricapitolazione degli stati inferiori della coscienza, il che ognuno di noi ha fatto quando, lasciato solo nel Gabinetto di Riflessione, ha meditato sull’invito a visitare allegoricamente i tenebrosi recessi della terra.

La posizione seguente, l’est, simboleggia invece il processo di gestazione dell’uomo ‘nuovo’ che sta per vedere la Luce. Certo, l’impresa non è agevole né suscettibile di essere attuata in breve tempo. A questo proposito ci piace ricordare le parole che Goethe ha messo in bocca a Mefistofele che godeva nel vedere Faust tormentarsi nella ricerca dell’irraggiungibile:

“Se pur adesso egli mi serve solo in un confuso anelito, lo condurrò tra poco a chiarità”.

Il corsivo è nostro, volendo sottolineare che lungo la via iniziatica si procede per gradi, e grado vuol dire gradino, il che rende pienamente l’idea della difficoltà che l’uomo incontra durante il cammino verso la perfezione.

Ed ecco, finalmente, la resurrezione.

Non dobbiamo stupirci se il punto di partenza coincide – aggiungiamo: significativamente – con quello d’arrivo, la coincidenza essendo tutt’altro che casuale. Ricordiamoci infatti dell’insegnamento del Campanella: “L’anima – egli diceva – procede dall’Infinito e riscopertolo in esso s’annienta, perdendo la propria individualità ma diventando Infinito essa stessa”.

Dal Logos che si è fatto carne, dunque, alla carne che si fa Logos: il ciclo si è chiuso, l’avventura dell’uomo è terminata.

Giovanni Lombardo

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