R.S.I. E PITAGORISMO

Asserire che il R.·. S.·. I.·.si riallaccia alle più antiche tradizioni iniziatiche italiche ed in particolare alla Scuola di Crotone, fondata da Pitagora” potrebbe parere – e certo lo è per un orecchio profano – un’affermazione peregrina. Meno rara e non singolare è tale affermazione per chi è aduso alle “catene d’unione“, per chi, come noi, ne ha saputo meditare ed introiettare i significati simbolici. Non a caso si insiste sulla “consapevolezza che la L.·. M.·. costituisce il veicolo mediante il quale viene trasmessa in Occidente la Tradizione iniziatica” e sul collegamento del perfezionamento dei membri del S.·.nella via aperta all’iniziazione massonica al modo come la Tradizione si è presentata in Italia nell’insegnamento di Pitagora“. A tal proposito, ci pare di particolare rilievo l’asserzione di René Guénon, uno dei più rigorosi studiosi della tradizione massonica, che riteneva “permesso pensare che, da Pitagora a Virgilio a Dante, la catena della tradizione non fu mai senza dubbio interrotta in Italia“. Potremmo indicare alcuni, solo alcuni, altri nomi degli anelli di questa catena italica dopo quelli di Pitagora Virgilio e Dante indicati da Guénon, rimanendo rigorosamente in ambito italico: Numa Pompilio, il secondo re di Roma fondatore del primo collegio di Architetti, Scipione l’africano, Catone il Censore, Cicerone, Ovidio, Vitruvio…, nel medioevo i maestri comacini e, dopo Dante, con la rigogliosa germinazione del Rinascimento – qui davvero non saremo e non potremo essere esaurienti, perché se i nostri fratelli d’oltralpe, i francesi, hanno nel medioevo e nella grandiosa progettazione delle cattedrali gotiche il loro apice per noi italiani vale appunto il Rinascimento nella letteratura nelle arti e nelle scienze- Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola, Giorgione, Leonardo da Vinci fino a Giordano Bruno, al quale va forse ascritta, secondo la studiosa inglese Frances Amelia Yates, a lui stesso e ai circoli di “giordanisti” che fondò qua e là in Italia, in Francia, in Germania e in Inghilterra la germinale disseminazione di quell’orientamento che si definirà “Libera Muratoria”. Quindi il Risorgimento…L’arciprete calabrese Domenico Angherà, carbonaro, mazziniano e naturalmente massone, che in suo testo del 1874 afferma categoricamente che l’Ordine Massonico è “la stessa, strettissima cosa dell’Ordine Pitagorico“. Più vicino a noi, svetta nel richiamo della tradizione pitagorica e neoplatonica il fratello Arturo Reghini, figura che la nostra istituzione dovrebbe riscoprire e adeguatamente valorizzare.
L’arte reale o l’arte regia è l’arte dell’edificazione spirituale cui corrisponde l’architettura e la geometria sacra. Il Tempio ne è l’archetipo. Del resto si osserva che “il Tempio è un simbolo complesso, la punta di un iceberg, il contenitore di numerosi altri contenitori, il Labirinto all’interno del quale è sempre ritrovabile l’Universo, l’Uomo, la sua Storia, la sua Intelligenza, la sua Essenza“.

Vi ho fatto un elenco di nomi, e questo elenco di nomi che fanno parte della Storia o del mito dell’Uomo, che è in realtà la “vera storia”, quella non profana, è una lista, anzi una catena di costruttori del Tempio che hanno usato come “metodica operativa l’esame pitagoreo e le regole dell’architettura nello studio e nella meditazione attiva dei simboli della Tradizione iniziatica tendenti alla realizzazione del proprio Sé“.

Ma, qui e fin dal principio, è evidente un elemento allegorico imprescindibile: il Tempio non viene costruito per essere terminato, ma è un’opera destinata ad attraversare i secoli, diretta verso la sua imprecisabile e quindi remota inaugurazione, in un sentimento d’eternità non formulato, ma plasmato da inaugurazioni minori (che sono le opere degli uomini alcune celebri, altre dissimulate, ma non meno importanti), come punti fermi per apprezzare l’indiscutibile avanzamento della costruzione, ma anche come gradi e stimoli rivitalizzanti di cui l’Umanità ha bisogno per mantenere in sospeso una così incommensurabile speranza. Sette scalini saliamo, ma continuiamo a vederne sempre sette. Infatti, ciò che dà un brivido singolare al sogno incompiuto del Massone, è il sospetto contenuto nella voluta manifestazione di questa continua costruzione, l’intuizione della vertiginosa proposta che sorge dall’ininterrotto progetto: lontano come resta da quel che deve essere il definitivo incontro con la sua forma, eppure abbastanza vicino a questa da lasciare intravedere la sua smisurata natura.

Come il lavoro del Massone, al pari di quello del Tempio in perenne costruzione, cosi è l’opera dell’Umanità. L’incompiutezza del progetto, del lavoro architettonico di ognuno di noi, non solamente deve essere prevista: è presumibile, necessaria.

Direi così: non c’è il porto, c’è la barca che naviga verso il porto e non giungiamo a destinazione perché la meta è il cammino. Nelle caratteristiche dell’operatività del Rito assieme al richiamo all’approfondimento dell’insegnamento pitagorico, si rileva anche la molteplicità di questi cammini “che la Conoscenza realizza e della diversità delle forme che l’Architettura realizza“. Possono dunque esistere molteplicità d’impostazioni di pensiero. Euclide disse che per un punto su una linea retta può passare solo una parallela, Lobacêvskij disse che possono passare infinite parallele. Riemann disse: nessuna parallela. Tre differenti impostazioni di pensiero: tutte valide. Quella euclidea si applica alla nostra realtà fisica più prossima, la seconda, la iperbolica ai pianeti, la terza al mondo microscopico dei quanti.

Ancora un esempio più concreto e semplice. La distanza più corta fra due punti è rappresentata da una linea retta. D’accordo in astratto. Ma nella vita di tutti i giorni la distanza più corta è quella che offre minore resistenza. Ma c’è di più il cammino più corto fra due punti è quello che si conosce meglio, perché conoscendolo si sanno meglio equilibrare le forze e quindi superare più velocemente gli ostacoli e arrivare prima. C’è qualcosa di meglio ancora: il cammino più corto fra due punti è il più bello. Quando si lavora in una situazione non piacevole, tutto è faticoso, lento, stancante. Ma se l’opera alla quale si è intenti piace, ecco che la stanchezza svanisce, ecco che il cammino più breve è quello più piacevole. Ma c’è ancora un grado più alto. Quando ami non c’è cammino perché ciò cui vuoi arrivare è dentro te stesso. Per cui il cammino più corto è ricompreso nelle massime iniziatiche Conosci te stesso e Ama il prossimo tuo come te stesso.

Ed è possibile e desiderabile che tale idea renda più liberi i nostri giorni. Come ci dicono gli epetà crusa – i versi aurei pitagorici: “quando gli Dei sono con te, finisci la loro opera e lavora con fede; presto e senza fatica arriverai a conoscere da dove viene, dove va e dove si ferma il tuo essere…“. Il Fr.·. Carl Jung, duemilacinquecento anni dopo Pitagora, ha saputo parlarci degli Dei accanto a noi. Ci ha spiegato che sotto la turbolenza della nostra mente conscia, le nostre motivazioni sono spinte dal mondo mitico. Cioè che vi sono energie celestiali archetipe, che ci sollevano dal nostro mondo e che ci trasportano nel mondo sacro. Sappiamo questo senza saperlo, in quanto le nostre intenzioni sono spinte da queste motivazioni mitiche. La nostra lotta per riuscire nel mondo fa parte delle fatiche, esattamente come quelle di Ercole. L’uomo che cerca l’Amore è stato toccato da Venere. La ricerca della Sapienza è un omaggio a Minerva. La comprensione del Tempio, inteso come simbolo riferito all’Uomo, come ci ricorda l’imperativo apposto sul frontone di quello massonico: “Conosci te stesso“, che si fa risalire a Pitagora e che fu già inciso sul Tempio di Delfi dedicato ad Apollo, rimanda dunque all’Opera che noi maestri architetti abbiamo intrapreso e che fa parte del mondo del mito, della magia, del mistero, del sacro.

Senza un’adeguata conoscenza di se stessi, non si può dare adeguata conoscenza del Grande Architetto. “Ma tu abbi fiducia – continuano i versi aurei – perché divina è la razza dei mortali“.

Pitagora ci invita a guardare sempre la nostra coscienza, il nostro daimon, il demone, il genio [che il cristianesimo chiamerà l’angelo custode (anghelos = messaggero)], cioè il riflesso del G.·. A.·. D.·. U.·. e prima di qualunque azione chiediamo ad Esso – attraverso la nostra coscienza – il permesso di farla. Continuano i versi d’oro: “Agisci in modo che nulla possa danneggiarti e non agire senza riflettere. Fa che i tuoi occhi non accolgano il dolce sonno prima d’aver ripercorso per tre volte gli atti della giornata, In che cosa ho mancato? Che cosa ho fatto? Quale dei miei doveri non ho compiuto?… Ecco ciò in cui dovrai esercitarti, ecco il compito che richiede tutti i tuoi sforzi, ecco ciò che devi prediligere e che ti porterà sulle tracce della virtù divina“.

La profonda e ascosa ricchezza degli insegnamenti pitagorici ci fa sembrare assolutamente desiderabile ciò: e cioè che tutta la vita di un Uomo si trasformi in una specie di rituale continuo, che ogni oggetto del mondo intorno a lui debba essere considerato un simbolo dell’eterno fondamento del mondo, che tutte le sue azioni debbano essere compiute con un senso di sacralità. Il cuore del Tempio, la parte più sacra e nascosta, il Grande Oriente che sorge e la Luce che ci illumina. Tradizione, infatti, significa ciò che è trasmesso. Non viene da noi l’amore, viene da molto lontano, noi siamo un canale, un tramite. In ogni nostra Opera è il Cosmo che agisce. Noi siamo animali cosmici, un microcosmo, un messaggero del Cosmo. Quando non compiamo il nostro dovere cosmico, ci dice Pitagora, danneggiamo noi stessi e l’Universo, siamo fuori dall’Armonia, siamo una nota fuori posto, siamo discordi.

Altro verso: “Saprai come le cose passano e come similmente rimangono“. C’è qui l’essere e il divenire dell’antica filosofia greca, il nirvana e l’impermanenza della Tradizione Orientale, il “solve et coagula” dell’alchimia, in breve la bellezza della vita che si schiude e termina in un ciclo continuo, la sua fondamentale unità e unicità. Sapere che se c’è un G.·. A.·. D.·. U, io gli sono necessario tanto quanto Esso è necessario a me… Sapere che se il prossimo esiste, esso è un tesoro necessario per l’Universo, simile e non separato da me. Questa partecipazione all’Umanità che non solo ci fa amarla come noi stessi, ma ci porta a quella dedizione sintetizzata nella divisa dei Padri fondatori del R.·. S.·. I.·.Fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te“, ancora ritroviamo nella Tradizione Orientale, a riprova che la Tradizione, indipendentemente dalla geografia e dalla storia, è una e unica. Un antico sutra buddista, contemporaneo all’epoca in cui visse Pitagora, dice. “Non chiedo niente per me che non sia anche per gli altri“. Walt Whitman, un poeta americano ha scritto: “Ogni atomo che appartiene a voi, appartiene anche a me“. Non è una metafora poetica, ma una realtà della fisiologia. Si parlava all’inizio della catena d’unione e dei suoi molteplici significati simbolici. Calcoli matematici, studi con isotopi radioattivi, dimostrano che in questo preciso momento abbiamo nel nostro corpo almeno un milione di atomi che una volta erano nel corpo di Pitagora, di Virgilio, di Dante o di chiunque altro vogliate pensare. In queste ultime tre settimane un quadrilione di atomi, – cioè 10 elevato alla 15° potenza o se volete dieci seguito da quindici zeri -, passato attraverso il corpo di ogni specie vivente sul nostro pianeta è passato anche attraverso il nostro corpo. Pensate a un albero di pesco in Giappone, ad uno scoiattolo di Manhattan, ad un aborigeno dell’Australia, in questo momento avete parte della materia che circolava in loro tre settimane fa. A livello atomico sostituiamo il nostro fegato ogni sei settimane, la nostra pelle si rinnova una volta al mese, il rivestimento gastrico ogni cinque giorni, persino il nostro scheletro che immaginiamo così solido e duraturo, viene completamente rinnovato ogni tre mesi. Così, in circa un anno, sostituiamo completamente il nostro corpo. Il che solleva un quesito assai interessante. Se pensiamo di essere il nostro corpo fisico, di quale corpo stiamo parlando? A quale corpo stiamo pensando? Sono a venuto in questa terra calabra, a Rossano, diversi mesi fa, a marzo. Non solo non porto lo stesso grembiule – allora indossavo quello da Compagno -, ma non porto neppure lo stesso corpo. Il corpo non è altro che terra, aria, acqua e fuoco riciclati che vanno e vengono. Ora sto parlando con il modello autunno-inverno di me stesso, ma l’ultima volta che sono venuto qua, in primavera, avevo un altro corpo. Hiram è morto. Quel corpo è putrefatto, è tornato alla polvere. Ma giacché non sono morto -, infatti, Hiram è risorto- converrete con me che già questa è una prova, scientifica o sapienziale non importa, dell’esistenza della vita dopo la morte, perché sopravviviamo costantemente alla morte delle molecole attraverso le quali ci esprimiamo. Non è un caso che Shakespeare, in una delle sue commedie più esoteriche La Tempesta abbia scritto: “Noi siamo fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni“.

Dunque, l’uomo che ha imparato a considerare le cose come simboli, le persone come templi dello Spirito e le azioni come riti, è un uomo che ha imparato a ricordarsi di continuo chi egli è, dove si trova in relazione all’Universo e al suo Fondamento, come si deve comportare con i propri Fratelli, e quello che deve fare per giungere alla meta finale.

Come Pitagora che sembra aver cercato, e trovato, il segreto, la parola perduta, la chiave che trasforma in Una Sola Cosa tutte le storie che fluttuano nelle acque eterne del tempo: en to pan. (Uno il Tutto). A conclusione, come dice l’altro verso aureo: “allora salirai sul carro di luce, spirito vincitore e re della materia, e potrai sederti in una calma eterna, dio immortale e non più un mortale“.

Moreno Neri